28 maggio 2013

Così Fan Tutte torna alla Fenice di Venezia

Che sia spietato cinismo o razionalismo portato alle estreme conseguenze poco importa. Nel Così Fan Tutte tutto è come dev’essere e tutto risponde a un disegno geometrico e razionale, finanche le ragioni del cuore. Le relazioni interpersonali si piegano a un disegno prestabilito e ineludibile, quasi un assioma dei rapporti amorosi cui devono inchinarsi, loro malgrado, gli ingenui protagonisti. C’è la ragione spietata a svelare la natura delle cose e degli uomini e gli uomini che cercano di ingannare se stessi e gli altri fingendo di non sapere quale sia la logica conseguenza verso cui tutto evolve. La ragione del pragmatico cinismo di Alfonso e Despina è un’arma potentissima da maneggiare con cautela, è una bomba che una volta innescata non lascia via di scampo distruggendo irrimediabilmente le vite affettive dei protagonisti. C’è tanto Settecento insomma in questo Mozart-Da Ponte. C’è Kant, l’Illuminismo, c’è la cieca fiducia nella forza dell’intelletto, il tutto filtrato attraverso quella cruda ironia tipicamente dapontiana, e poi c’è la menzogna o meglio la finzione quasi consolatoria, rassicurante.



Evidentemente il regista Damiano Michieletto, giunto alla tappa conclusiva della trilogia mozartiana, non crede alla possibilità di rimedio per gli amanti ingannati, il tradimento non può essere superato dall’accettazione delle verità rivelate di Alfonso. In questo senso potremmo definire la lettura di Michieletto pessimistica nel caso specifico della vicenda, non terminando con il perdono collettivo, ma decisamente positiva inquadrando la vicenda in un’ottica più ampia. Rimane infatti la speranza che gli uomini, o l’umanità in senso lato, sappiano rinunciare alla facile via del cinismo, alla prona accettazione del “così fan tutte” perché in fondo convinti che ci sia un senso etico superiore all’istinto di natura. Per questa ragione la zuffa tutti-contro-tutti che chiude l’opera lascia in bocca un sapore dolce, una speranza nuova. Non serve poi ricordare quanto sia tecnicamente bravo Michieletto nel muovere gli artisti in scena come nel saper trovare corrispondenza perfetta tra ogni frase musicale e l’immagine teatrale evocata.

Il bellissimo impianto scenico curato da Paolo Fantin si serviva della medesima piattaforma girevole utilizzata per Don Giovanni e Le Nozze di Figaro, nel caso specifico trasformata in un lussuoso hotel nei cui ambienti si dipanano le trame ordite dal direttore Alfonso ai danni dei clienti. Le sorelle ferraresi sono due frivole ragazze (due shopping addicted, si direbbe) che sembrano uscite da un telefilm americano, Guglielmo e Ferrando due surfisti tamarri, Don Alfonso un viveur con la debolezza per l’alcol e le donne. In un simile contesto di spiazzante superficialità si sviluppa lentamente l’amara consapevolezza dei protagonisti di quanto possa essere pericoloso giocare con i sentimenti.

A uno spettacolo curatissimo corrispondeva un’esecuzione musicale pienamente convincente. Antonello Manacorda, alla guida dell’ottima orchestra della Fenice, dava del capolavoro mozartiano una lettura vibrante ed energica, di forte impatto emotivo e teatrale. Il ritmo serrato e la cura per il dettaglio che mai scadeva nel calligrafismo o nel compiacimento, rendevano la direzione coinvolgente ed intensa, capace assecondare nel migliore dei modi la dinamicità e la tensione incalzante dello spettacolo. Dispiaceva riscontrare alcuni tagli di tradizione, particolarmente accaniti nel secondo atto.

Maria Bengtsson si confermava un’eccellente Fiordiligi, sia per la splendida figura, sia per la bellezza del canto. La voce, irrobustitasi nel registro grave rispetto alle prove dello scorso anno, sapeva svettare luminosa come piegarsi in suggestive mezzevoci, il fraseggio era sempre curatissimo. Commovente l’aria “Per pietà ben mio perdona”, perfettamente sostenuta dall’orchestra. Josè Maria Lo Monaco era una Dorabella fresca e dal fascino quasi adolescenziale, spigliata in scena e musicalmente impeccabile. Eccellente il Guglielmo di Alessio Arduini, baritono di grande talento e rara personalità autore di una prova pienamente convincente per autorevolezza e classe. Il tenore Anicio Zorzi Giustiniani pur non possedendo una voce tra le più belle, disegnava un Ferrando partecipe e garbato. Piaceva moltissimo la deliziosa Despina di Caterina Di Tonno, spiritosa e vivace nonché ottimamente cantata. Perfettamente caratterizzato il Don Alfonso becero e sfrontato di Luca Tittolo, bella voce di basso al servizio di un canto espressivo e curato, soprattutto nei fondamentali recitativi.

Paolo Locatelli
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