Si potrebbe dire che Elina Makropulos sia il Don Giovanni del XX secolo. In fondo, benché distanti per sensibilità e linguaggio, si tratta di due figure tra le più affascinanti e inafferrabili dell’intero repertorio operistico. Banalmente basterebbe l’irresistibile fascino erotico ad accomunarli, tuttavia le analogie sono ben più profonde e riguardano la sfera psicologica e affettiva dei personaggi. L’esasperato razionalismo che diventa cinismo, l’apatia di “chi nulla sa gradir”, l’incapacità di trarre piacere dall’esistenza e dai rapporti, il bieco opportunismo, finanche la scelta di una morte evitabile accomunano tali figure in modo quasi inquietante.
Věk Makropulos, meglio noto presso il pubblico italiano come “L’Affare Makropulos”, capolavoro del compositore ceco Leos Janácek, arriva al Teatro La Fenice di Venezia in un allestimento firmato da Robert Carsen che si farà ricordare. L’Affare Makropulos è la storia di una donna condannata ad un’esistenza plurisecolare da un filtro di lunga vita: Elina Makropulos appunto, che trascorre 337 anni sulla Terra attraverso continui cambi di identità, amori e una carriera di somma cantante d’opera. L’eterna giovinezza le consente di raggiungere la perfezione assoluta nell’arte ma le toglie il piacere di vivere, rendendola refrattaria ad ogni tipo di sentimento, quasi il corpo fosse sopravvissuto tanto a lungo ad un’anima estinta.
Nello spettacolo veneziano Carsen sceglie di sviluppare ulteriormente un tema che pare essergli particolarmente caro: il rapporto tra finzione teatrale e realtà, già indagato in numerose occasioni, dal Don Giovanni scaligero alla Tosca di Zurigo, passando attraverso il Capriccio straussiano di Parigi o l’Ariadne auf Naxos. Il teatro diviene il luogo perfetto per accogliere una profuga dei secoli come Elina Makropulos, o per meglio dire Emilia Marty, anzi, l’unico luogo possibile. Le maschere teatrali che la diva porta sul palcoscenico diventano le maschere indossate dalla donna per camuffare se stessa agli occhi del mondo, gli abiti di scena le sue molteplici identità. Ultima tra le tante è la principessa di gelo Turandot, accomunata alla Marty da un percorso psicologico che si risolve nello scioglimento finale (pur con esiti diametralmente opposti), pensata registica ricca di fascino e suggestioni.
In un cast omogeneo e convincente si imponeva su tutti la protagonista, Ángeles Blancas Gulín, Emilia Marty di grande personalità ed ottimamente cantata. Dominatrice della scena, il soprano restituiva un’Elina glaciale ma in fondo ironica, capace di esplodere nel terz’atto la disperazione covata per secoli in un monologo di lacerante intensità. Piaceva il Prus dalla virilità rude di Martin Bárta, meno il Gregor di Ladislav Elgr, spesso vocalmente in difficoltà. Convincevano pienamente Enrico Casari (Janek), Enric Martínez-Castignani (Kolenaty), Leonardo Cortellazzi (Vítek) e la Krista di Judita Nagyovà. Ottimo il Conte Hauk-Šendorf caricaturale e grottesco di Andreas Jäggi.
Gabriele Ferro optava per una lettura scopertamente lirica in cui l’indagine sui nessi tra il lavoro del compositore ceco e la tradizione tardoromantica prevaleva sulla natura novecentesca del lavoro; il direttore accentuava la cantabilità delle linee melodiche limando ogni spigolo o scortesia della partitura. La scelta, per quanto discutibile, potrebbe avere le sue buone ragioni se l’obiettivo fosse perseguito con maggiore cura del suono e degli equilibri. La direzione è apparsa invece pesante e prevaricante sulle voci, piatta nelle dinamiche (è mancata ogni traccia di pianissimo) e nei colori.
Paolo Locatelli
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