Il Teatro La Fenice sceglie I Masnadieri di Verdi per aprire l’anno dei bicentenari. Titolo sfuggente ed enigmatico in cui si mescolano conflitti famigliari ed ombre risorgimentali, musica di alterna ispirazione, un libretto dinanzi al quale spesso si fatica a trattenere le risate.
L’allestimento di Gabriele Lavia – almeno nelle intenzioni – strizzerebbe l’occhio ai più giovani, ricollocando la vicenda schilleriana in una contemporaneità metropolitana. La scena, fissa per quatto atti su quattro, riproduce un capannone industriale in abbandono, imbrattato da murales da banda di strada, con teschi, coltellacci e inni alla libertà. Tutto qua. Per il resto ci si trova di fronte alla più tradizionale della regie con il coro ben piantato a terra, i solisti guidati il minimo indispensabile, il consueto insopportabile frusto repertorio di pose da melodramma, che ancor più stride con l’ambientazione ultracontemporanea. Non giova una certa schizofrenia temporale in cui si mescolano spadoni ed abiti trendy, pistole mitragliatrici e fari da concertone rock. Una ricontestualizzazione estrema nelle intenzioni ma in fin dei conti velleitaria, malamente assecondata da un disegno registico di scarsa ispirazione. Anche il lavoro sui caratteri principali dell’opera è sembrato semplicistico e sommario con il Carlo di Moor bello e dannato, bandito da copertina con la sciarpetta abbinata alla camicia e il povero Francesco turpe e cattivo come neanche Tersite. Qualche gioco di luci indovinato non riscatta un allestimento che nasce povero e povero muore.
Tutt‘altro discorso per l’esecuzione musicale, pienamente convincente nel complesso, con punte di eccellenza nel direttore e nella primadonna. Daniele Rustioni dava della partitura verdiana una lettura elegante ed energica, traendo da un’orchestra in forma smagliante suono nitido ed avvolgente. Il preludio suonava intenso ma niente affatto ruffiano, piaceva immensamente il quartetto finale di primo atto, di virtuosistico equilibrismo, perfettamente dosato nei volumi e nelle tinte. Il maestro milanese convinceva altrettanto nei passi più concitati dove riusciva ad unire al vigore orchestrale una tensione ritmica incalzante ma mai volgare, evitando i clangori e gli effettacci che capita spesso di ascoltare nel primo Verdi.
Andeka Gorrotxategui era un Carlo di Moor solido e convincente; la voce, di bel colore, era impiegata in un canto piuttosto monocorde ma incisivo. Maria Agresta nei panni di Amalia esibiva vocalità privilegiata per timbro e volume nonché impeccabile stile. Il soprano ha dimostrato perfetta padronanza della vocalità nei passi squisitamente lirici, ottimamente cantati e fraseggiati con gusto, come nell’impervia cabaletta di bravura. Artur Rucinski, Francesco di Moor, non ha voce tra le più belle ma sa adoperarla con coscienza. Il baritono dava della parte una lettura intensa, culminata con un quarto atto partecipe ed ottimamente cesellato. Giacomo Prestia era un Massimiliano autorevole ed intenso, Cristiano Olivieri un buon Arminio. All’altezza della situazione il Moser ieratico e possente di Cristian Saitta e il Rolla di Dionigi D’Ostuni.
Ottima la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Paolo Locatelli
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