Chi è Don Giovanni? È un eroe, un simbolo di libertà o un immorale dissoluto? È l’allegoria della vita, della materia che sfida lo spirito e la morale? Il regista Damiano Michieletto, nel pluripremiato allestimento che ha esordito alla Fenice di Venezia nel 2010, recentemente riproposto dal teatro veneziano, non prende una posizione netta e definitiva in merito, Don Giovanni è tutto ciò e molto altro, egli è la parte più abietta o quantomeno inaccettabile di ciascun individuo, una componente al cui fascino è impossibile non cedere.
Michieletto ambienta la vicenda in un palazzo tra le cui stanze si muovono freneticamente i personaggi quasi in fuga gli uni dagli altri ma principalmente in fuga da sé stessi, incapaci di trovare una via d’uscita, come ingabbiati in un labirinto. Questo effetto è reso con un elaborato impianto scenico costituito da una serie di pareti in continuo movimento che consentono all’ambiente di mutare incessantemente rendendo l’ipercinesia della vicenda, l’irrefrenabile velocità con cui scorre la vorticosa vita di Giovanni il quale trascina con sé chiunque abbia la sventura di incontrarlo.
Il palazzo è Don Giovanni, è la prigione in cui sono costretti i personaggi della vicenda, sedotti e rapiti dal dissoluto. Egli è l’immorale, colui che non sa coltivare affetti (chi nulla sa gradir), il crudele seduttore, eppure il disgusto che desta nel prossimo si accompagna ad un inevitabile fascino perverso che si impossessa delle anime altrui. Egli si insinua negli altri diventando parte essenziale delle loro vite che infatti, nella concezione di Michieletto, non sopravviveranno alla morte di Giovanni. Le donne che hanno incontrato Giovanni non sanno dimenticarlo (egli appare come un’ombra nei duetti tra Anna ed Ottavio ed in quelli tra Zerlina e Masetto, insoffocabile desiderio erotico femminile) ma anche gli uomini ne sono sopraffatti, Leporello in particolare.
Si potrebbe quindi dire che Don Giovanni sia l’inaccettabile rivelazione della parte più animalesca e istintiva che chiunque nasconde in sé e che invano cerca di soffocare inorridito dall’immoralità cui si accompagna.
In un simile contesto si spiega la centralità che Michieletto affida alla sessualità, continuamente esplicitata fino al finale secondo con la mensa trasformata in un’orgia sfrenata in cui i bocconi sono giovani ragazze atte a soddisfare l’appetito di Giovanni e del suo servo.
Quando irrompe il Commendatore, non come statua ma come fantasma che tormenta la coscienza del protagonista, la fine è segnata per tutti: il palazzo viene sommerso da un’atmosfera spettrale, le stanze ricoperte da corpi esangui. Don Giovanni è destinato alla morte ma non si tratta di una morte liberatoria, una giusta punizione per i crimini compiuti in vita, bensì di una condanna per tutti gli abitanti del palazzo che sono a tal punto impregnati e caratterizzati da Giovanni stesso da non poter evitare di seguirlo. Così durante il coro finale della “buona gente” che festeggia lieta “il fin di chi fa mal, de’ perfidi la morte” Giovanni riappare per abbattersi come una falce sulle vite ormai sopraffatte degli altri.
Oltre all'eccezionalità dell’allestimento, lo spettacolo veneziano si fregiava di un’esecuzione musicale molto buona con punte di eccellenza in alcune componenti del cast. Markus Werba è un ottimo Don Giovanni, spavaldo in scena, sicuro e ben controllato nella vocalità. Al pari degno di lode il Leporello di Vito Priante, baritono che sa unire al bel colore di voce gusto e proprietà stilistica. Buona la prova di Anita Watson come Donna Anna mentre Carmela Remigio è una perfetta Donna Elvira sia vocalmente che scenicamente.
Antonio Poli è un Don Ottavio di lusso, la voce è bella e perfettamente emessa ed il pubblico ha salutato le sue due arie con calorosi applausi. All’altezza della situazione infine la bellissima Zerlina di Irini Kyriakidou, il Masetto di Borja Quiza e l’imponente Commendatore di Goran Juric.
Ottima la direzione di Antonello Manacorda, vibrante nei passi più concitati, setosa laddove la partitura richieda slanci lirici, estremamente attenta alle esigenze di palcoscenico senza compromettere o scarificare la coerenza musicale né la bellezza e la trasparenza del suono orchestrale.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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