Recensione - Seconda tappa del ciclo dapontiano alla Fenice con Le Nozze di Figaro dopo il fortunatissimo Don Giovanni recentemente riproposto e aspettando il Così Fan Tutte che a febbraio 2012 chiuderà il cerchio.
Le nozze di Figaro è l’opera perfetta. Lo è nella sublime leggerezza della musica di Mozart come nel libretto, in cui Da Ponte sa mascherare la malinconia e le inquietudini d’ironia. Non è una semplice commedia dunque questo racconto della folle giornata in cui dovrebbero celebrarsi le nozze tra il protagonista e la cameriera Susanna, ma un affresco di vita, un’analisi dei rapporti interpersonali nonché degli affetti e delle meschinità che li regolano.
Dopo le entusiastiche risposte di pubblico e critica al precedente Don Giovanni le aspettative per questo nuovo allestimento erano altissime e, benché il regista Damiano Michieletto abbia allestito un ottimo spettacolo, è innegabile che alla fine rimanga nello spettatore un fondo di delusione nel trovarsi di fronte ad un fratello minore del precedente lavoro.
Le perplessità non possono certo riguardare la tecnica registica che Michieletto possiede e padroneggia con classe, quanto piuttosto la sensazione che tutto si fermi alla superficie. Certo si parla di una superficie tirata a lucido, la costruzione dello spettacolo è formalmente impeccabile, la trama dipanata con sapienza e, al solito, curatissima la gestione degli artisti in scena. Si avverte però la mancanza di una lettura che scavi più in profondità tra le pieghe di questo capolavoro.
Non giova poi allo spettacolo la somiglianza delle scene con il precedente Don Giovanni di cui queste Nozze sono, più che una prosecuzione, un calco. Benché la scelta possa sottintendere l’intenzione di mettere in relazione ancor più stretta le due opere, il risultato non solo non convince ma, peggio, finisce per limitare l’effetto dello spettacolo in chiunque abbia già visto il precedente.
Se il Cherubino-Eros che muove le azioni dei personaggi non sembra un’intuizione così originale, più indovinato è il lavoro sul personaggio della Contessa, in scena dall’inizio fino al colpo di teatro finale. Una contessa malinconica più dell’uso che vive nell’incubo del tradimento quanto nella consapevolezza di aver perso l’amore del marito, un incubo da cui cerca di svegliarsi, di fuggire trovando nella fuga la tragica fine.
Complessivamente più che buona l’esecuzione musicale. Alex Esposito offre corpo e voce al protagonista Figaro e lo fa molto bene. La vocalità è sicura, spavalda, l’artista fantasioso. Una lieta sorprese la Susanna di Rosa Feola, giovane soprano di belle speranze che colpisce, più che per la bellezza timbrica e la consapevolezza tecnica, per il gusto nel porgere ed uno scavo della parola sorprendente per la giovane età (e nei quali si intravede, con le dovute cautele, la lezione della maestra Renata Scotto).
Markus Werba era il Conte dopo essere stato un eccellente Don Giovanni risultando nel complesso meno convincente in ragione di una certa rigidità nel canto nei momenti in cui la scrittura richiederebbe un abbandono e una morbidezza maggiori, come il duetto con Susanna o la scena finale del perdono. Discorso non dissimile può essere fatto per Carmela Remigio che non riesce a replicare l’eccellente Elvira soprattutto a causa di una partenza non felicissima nella cavatina che apre il secondo atto.
Molto brava Marina Comparato nei panni di Cherubino, sicura in scena quanto nel canto. Non del tutto soddisfacenti le parti di fianco, soprattutto sul versante maschile.
Ottima viceversa la concertazione di Antonello Manacorda che conferma di avere una particolare sensibilità per la musica del genio salisburghese. Direzione vibrante, travolgente eppure rispettosa dei cantanti, poco incline al compiacimento anche laddove sarebbe facile strappare l’effetto a buon mercato.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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