Quando nel 1984 Christoph von Dohnányi fu scelto per raccogliere il testimone di Lorin Maazel alla guida della Cleveland Orchestra, pur avendo abbondantemente superato i cinquant’anni d’età, di cui almeno la metà spesi sui podi più importanti del mondo, la sua esperienza in sala di registrazione si riduceva a una manciata di progetti. Non sorprende che l’approdo sullo scranno di una formazione che sin dai tempi di George Szell aveva consolidato un catalogo discografico enorme gli abbia riservato una svolta in tal senso, cui contribuì principalmente Decca, che predispose un progetto di lungo periodo che nei due decenni in cui il direttore rimase in Ohio si concretizzò in un patrimonio che oggi l’etichetta ha raccolto in un cofanetto da 40 CD.
L’esito, analizzato a posteriori, è più interessante di quanto si possa immaginare, poiché nelle interpretazioni di Dohnanyi emerge una sorta di natura ibrida tra l’opulenza e la densità del suono di tradizione tedesca e la formidabile perfezione strumentale tipica delle grandi orchestre americane, meravigliose macchine esecutive di straordinaria precisione e reattività. Connubio che assicura una notevolissima intelligibilità dei dettagli e delle voci orchestrali pur in un contesto di sonorità maestose per ampiezza e forza di impatto. Certo, benché i dischi siano relativamente recenti, all’orecchio odierno si avverte un’impostazione ancora inconsapevole delle prospettive che gli approdi filologici avrebbero aperto sul repertorio sette e ottocentesco. Da questo punto di vista si ascolta infatti la testimonianza di uno degli ultimi superstiti della vecchia scuola direttoriale, basti ricordare che Dohnanyi, classe 1929, appartiene alla generazione dei Tennstedt, dei Carlos Kleiber e dei Masur, ma altresì il suo imprinting tradizionale non gli ha mai impedito di affrontare la pagina con lo sguardo analitico dello scienziato musicale, propensione che non di rado gli è costata l’accusa di eccessiva freddezza.
Non di meno, nelle sue due decadi di reggenza a Cleveland, oltre all’estensione del catalogo, Dohnanyi contribuì a una rinascita del prestigio internazionale dell’orchestra, che nel periodo immediatamente precedente aveva attraversato una fase di crisi e di involuzione che i maligni attribuiscono alla gestione problematica di Maazel, espandendo il repertorio verso il Novecento ma altresì imponendo una disciplina rigorosa che risollevò rapidamente gli standard performativi e, assieme ad essi, l’apprezzamento internazionale. Attiene invece grossomodo al repertorio canonico di Mozart, Berlioz, Brahms, Bruckner e Mahler - con qualche escursione - quanto raccolto nei dischi di cui si dà conto, o comunque al grande sinfonismo, con una sola eccezione: le prime due tappe di un Ring wagneriano, abortito anzitempo dopo la Valchiria, registrate a margine di una serie di performance concertanti.