12 settembre 2025

Note su note: Christoph von Dohnanyi, The complete Decca recordings

    Quando nel 1984 Christoph von Dohnányi fu scelto per raccogliere il testimone di Lorin Maazel alla guida della Cleveland Orchestra, pur avendo abbondantemente superato i cinquant’anni d’età, di cui almeno la metà spesi sui podi più importanti del mondo, la sua esperienza in sala di registrazione si riduceva a una manciata di progetti. Non sorprende che l’approdo sullo scranno di una formazione che sin dai tempi di George Szell aveva consolidato un catalogo discografico enorme gli abbia riservato una svolta in tal senso, cui contribuì principalmente Decca, che predispose un progetto di lungo periodo che nei due decenni in cui il direttore rimase in Ohio si concretizzò in un patrimonio che oggi l’etichetta ha raccolto in un cofanetto da 40 CD. 


   L’esito, analizzato a posteriori, è più interessante di quanto si possa immaginare, poiché nelle interpretazioni di Dohnanyi emerge una sorta di natura ibrida tra l’opulenza e la densità del suono di tradizione tedesca e la formidabile perfezione strumentale tipica delle grandi orchestre americane, meravigliose macchine esecutive di straordinaria precisione e reattività. Connubio che assicura una notevolissima intelligibilità dei dettagli e delle voci orchestrali pur in un contesto di sonorità maestose per ampiezza e forza di impatto. Certo, benché i dischi siano relativamente recenti, all’orecchio odierno si avverte un’impostazione ancora inconsapevole delle prospettive che gli approdi filologici avrebbero aperto sul repertorio sette e ottocentesco. Da questo punto di vista si ascolta infatti la testimonianza di uno degli ultimi superstiti della vecchia scuola direttoriale, basti ricordare che Dohnanyi, classe 1929, appartiene alla generazione dei Tennstedt, dei Carlos Kleiber e dei Masur, ma altresì il suo imprinting tradizionale non gli ha mai impedito di affrontare la pagina con lo sguardo analitico dello scienziato musicale, propensione che non di rado gli è costata l’accusa di eccessiva freddezza.

   Non di meno, nelle sue due decadi di reggenza a Cleveland, oltre all’estensione del catalogo, Dohnanyi contribuì a una rinascita del prestigio internazionale dell’orchestra, che nel periodo immediatamente precedente aveva attraversato una fase di crisi e di involuzione che i maligni attribuiscono alla gestione problematica di Maazel, espandendo il repertorio verso il Novecento ma altresì imponendo una disciplina rigorosa che risollevò rapidamente gli standard performativi e, assieme ad essi, l’apprezzamento internazionale. Attiene invece grossomodo al repertorio canonico di Mozart, Berlioz, Brahms, Bruckner e Mahler - con qualche escursione - quanto raccolto nei dischi di cui si dà conto, o comunque al grande sinfonismo, con una sola eccezione: le prime due tappe di un Ring wagneriano, abortito anzitempo dopo la Valchiria, registrate a margine di una serie di performance concertanti.

11 settembre 2025

Antonio Pappano porta in tournèe la London Symphony Orchestra

   L'inaugurazione dell'edizione 2025 del Settembre dell’Accademia, che anche quest’anno inanella una parata di grandi orchestre e star della musica nella sala del Filarmonico di Verona, è una prova di forza quasi sprezzante della London Symphony Orchestra. Per resistenza, completezza, versatilità e ampiezza, quello proposto è infatti il più classico dei programmi da grande tournée, pensato per mettere in mostra l’argenteria di un’orchestra gloriosa che torna in Italia con Antonio Pappano, che dal 2023 ha raccolto da Simon Rattle il testimone come direttore musicale.

Foto Studio Brenzoni 

   Un ciclo di concerti che ha attraversato diverse città e che conferma anche le qualità di interprete di Pappano, il quale non è un direttore cavilloso o analitico, non è un alchimista del colore orchestrale - non è insomma il genere di maestro che cerca trasparenza e cura del dettaglio - ma un musicista travolgente e appassionato, più interessato all’impatto emozionale e alla coesione che a una estrema perizia esecutiva.

   Lo dimostra nella Sinfonia n.9 in mi bemolle maggiore Op. 70 di Šostakovič, accesa e contrastata ma altresì assai ben sbalzata tra l’impeto meccanicistico dei movimenti svelti e la delicatezza nei momenti distesi, in cui emerge il canto dei legni - fagotto su tutti - cui Pappano sa dare il giusto risalto e la giusta libertà di canto. Considerato il peso della storia interpretativa, questo pigio si palesa ancor più nel Beethoven della Quinta, vicina alla tradizione nelle sonorità, anche per via dell’ampio organico della London Symphony Orchestra, ma esuberante e assai poco inamidata nello sviluppo. In definitiva nell’approccio di Pappano al grande sinfonismo dominano su tutto la tensione dell’arco narrativo e un amore per una comunicativa immediata, resi ancor più urgenti dal gesto carnale e disintermediato, a mani nude (perché usare una bacchetta - dice Jorma Panula - se ho già dieci dita?)

   Accanto all’ottima London Symphony, sontuosa per possanza del suono e per qualità individuali e d’insieme, nella prima parte di concerto è salito sul palco Seong-Jin Cho, protagonista nel Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in fa minore Op. 21 di Fryderyk Chopin. Stella Deutsche Grammophon, Seong-Jin Cho è il prototipo del pianista che piace al pubblico contemporaneo, e se ne capiscono le ragioni, a partire dall’assoluta completezza del bagaglio tecnico, cui non difetta proprio niente: controllo, proiezione, pulizia, legato, dinamica varia e dominio della tastiera. Il suo è un pianismo soppesato e calibrato in ogni tocco, cui manca solo un po’ abbandono, o per meglio dire di vertigine: insomma il coraggio di osare qualcosa che infranga la perfetta esposizione di ogni nota e frase, che pure, a onor del vero, sono di straordinaria fattura.

   Se Pappano non è il più pignolo dei concertatori e si lascia scappare qualche sbavatura nella struttura del sound orchestrale, senza dubbio alcuno è un accompagnatore intelligente e amorevole. Lo dimostra negli equilibri soppesati tra l’ampio comparto di archi e i legni soli nelle sinfonie, lo sottolinea ancor più chiaramente in un Chopin condotto senza deferenza ma perfettamente rifinito e bilanciato nella valorizzazione di ogni voce, a partire da quella del solista.

   Accoglienza trionfale con doppio bis: ancora Chopin per Seong-Jin Cho e Nimrod dalle Enigma Variations di Elgar in conclusione.


Manfred Honeck e Renaud Capuçon tornano alla GMJO

   Ci sono due aspetti complementari che rendono l’incontro tra Manfred Honeck e la Gustav Mahler Jugendorchester per la tournée estiva del 2025 uno dei più intriganti nella storia recente del progetto. Il primo è proprio la qualità dell’orchestra, che sì, vanta un livello medio che anno dopo anno si attesta costantemente tra l’eccellente e lo straordinario, ma poche volte si è ascoltata esprimere una simile plasticità e pulizia nella struttura dell’amalgama, a servizio della miracolosa identità timbrica sempre uguale. Osservare nella Quinta Sinfonia di Čajkovskij diciotto violini primi che sciorinano con esattezza millimetrica le semicrome staccate del Valse come fossero un ensemble da camera è qualcosa che toglie davvero il fiato.

   E poi c’è la totale responsività al podio. Al suo gesto, che è chiarissimo ma assai flessibile ed esigente in termini di rubato e fraseggio, all’entità dell'impegno fisico che impone ai musicisti e anche alle sue idee musicali, che sono in molti casi estreme. Estreme non in quanto forzate o eccentriche, ma poiché sollecitano scarti e transizioni spinosi (non tagliati di netto, ma disegnati da movimenti fini e pertanto ancor più sfidanti), dinamiche amplissime con pianissimi sussurrati e forti impetuosi, colori sempre perfettamente gradati e bilanciati, cosa tutt’altro che banale per un organico che supera i centodieci elementi e che si esibisce ogni sera in una sala diversa.

Foto Luca D'Agostino


   Insomma alla fine dei due concerti che segnano il ritorno della Gustav Mahler Jugendorchester sul palco del Verdi di Pordenone per il summer tour 2025, dopo otto date in giro per l’Europa, spiace che non ce ne sia un terzo a seguire. In occasione del doppio appuntamento che sancisce il decimo anniversario della collaborazione con il teatro friulano l’orchestra non si è esibita da sola, ma accanto a Renaud Capuçon, virtuoso del violino tra i più interessanti della sua generazione con un passato da spalla proprio nella Mahler.

   Nel Concerto in re maggiore di Korngold colpisce la totale sinergia tra solista e direttore, sia nella concezione estetica dell’opera, la cui cantabilità notturna non è mai forzata verso spigolosità ma mantiene una sorta di inesausto, cullante, legato d’insieme, sia in un balancing che consente al violino di non spingere mai il suono, poiché sostenuto senza prevaricazioni da un accompagnamento incredibilmente delicato a fronte delle dimensioni dell’organico.

   Una comunanza che nel Concerto n. 3 in sol maggiore, K 216 di Mozart proposto nella seconda serata trova diversa declinazione ma pari efficacia, con un'orchestra ridotta e ulteriormente ingentilita da articolazioni in punta di fioretto che ne alleggeriscono il peso.

   Se oggi è frequente ascoltare i concerti per violino di Mozart spinti al parossismo nella caratterizzazione, con sonorità graffianti e, non di rado, un approccio barockettaro allo strumento, Capuçon lo affronta con la stessa levigatezza di suono che riserva al lirismo di Korngold: un’omogeneità della bellezza timbrica che si conserva lungo tutta l'estensione, senza aculei né increspature. Ma soprattutto - ed è forse la peculiarità più sorprendente in Mozart - Capuçon possiede una qualità artistica difficilmente circostanziale a parole, la capacità di “cantare” le note con una limpidezza di dizione mai disgiunta da un’idea sottostante di legato e fraseggio, anche quando si tratta solamente di piccole cellule musicali o figurazioni ritmiche.

   Se nella veste di accompagnatore Honeck ha l’intelligenza di dare agio al solista di esprimersi al meglio, non arretrando ma tenendo il motore dell’orchestra sempre a bassi giri, nelle due grandi pagine sinfoniche ne saggia i limiti estremi, spremendo dai musicisti ogni goccia di energia. È una scommessa elettrizzante ma rischiosa - doppiamente elettrizzante e rischiosa se si ha a che fare con un ensemble giovanile - che ripaga in una Sinfonia n. 5 in mi minore di Čajkovskij suonata da una GMJO in stato di grazia.

   Una Quinta pennellata in ogni piccolo inciso dalla bacchetta di Honeck, che bilancia l’amore per il dettaglio con la fluidità d’insieme, dando sviluppo al continuo modellamento di frasi e di dinamiche, di accelerazioni e distensioni, senza frammentare il discorso musicale né incagliarsi in leziosismi. È un’impostazione tanto affascinante quanto ambiziosa, poiché necessita di un’orchestra duttile ed elastica che sappia animare l’andamento orizzontale senza creare cesure nel suono né nelle transizioni, e ovviamente senza sfaldarsi di fronte ai guizzi del gesto.

   Nella Sinfonia n. 9 in re minore l’inventiva è convogliata verso un'impetuosità apocalittica, lontana dal tono monumental-sacrale della tradizione poiché più mobile e varia nell’incedere. Non è un Bruckner (solo) maestoso e uniformato al sound organistico - che pure in certi passaggi non manca - né contemplativo, ma fremente e sbalzato nei contrasti, nelle articolazioni dei diversi caratteri che compongono la scrittura e pervaso da una drammaticità incoercibile che può rivelarsi straziante ma anche terrorizzante (lo Scherzo!), squarciare abissi di vertigine o indicare una luce di speranza.

   A fronte di un’innegabile potenza evocativa, quello di Honeck è un approccio alla musica tassante che esige moltissimo dall’orchestra in termini di sforzo fisico, generosità e concentrazione, e che, nel caso del concerto pordenonese, paga dazio in un terzo movimento in cui la fatica - soprattutto tra i fiati - si fa sentire. Però che vitalità!

   Trionfo con bis “bissati” a furor di popolo nelle sue serate: la ninna nanna catalana “Canto degli uccelli” nella trascrizione di Pablo Casals e il Mattino dalle musiche di scena di Peer Gynt di Edvard Grieg.

4 settembre 2025

Tosca al Teatro La Fenice

   Intelligentemente Joan Anton Rechi capisce che il grimaldello più efficace per scardinare la tradizione interpretativa di Tosca, in modo da offrirne un’alternativa plausibile, è Scarpia, il personaggio più complesso nonché il vero motore dell'azione. Così nella nuova produzione in scena al Teatro La Fenice decide di proporne un ritratto non convenzionale ma tutto sommato assennato: ne fa una sorta di gangster, emanazione di un non meglio definito potere, che conduce i suoi loschi traffici nella penombra, lontano da occhi che non siano quelli dei suoi scagnozzi. Chiaramente è un disegno che emerge nel secondo atto che, anziché nelle stanze di Palazzo Farnese, va in scena all’aperto, intorno a una berlina di lusso posteggiata in un piazzale antistante a un edificio in cui si intravedono, attraverso le finestre, la cantata della diva Floria Tosca e il pestaggio di Cavaradossi.


   Partendo da questo presupposto, è perfetta la scelta di scritturare per la parte Roberto Frontali, che è attore e artista misuratissimo cui basta un’alzata di sopracciglio per definire uno Scarpia gelido e spietato. Peccato dunque che in occasione della prima sia stato annunciato indisposto e abbia palesato evidenti problemi vocali sin dal Te Deum, che sono andati peggiorando man mano che il secondo atto avanzava.

   Secondo atto che, proprio grazie all'originale caratterizzazione del villain, è il momento teatralmente più interessante di uno spettacolo che nelle frazioni dispari è invece assai ordinario e ricalca il palinsesto, sia in termini di recitazione che di drammaturgia, della gran parte delle Tosche che si siano viste in teatro dal 1900 a oggi, salvo riproporlo con un differente sfondo scenografico (a firma di Gabriel Insignares). Una cornice che non segue le indicazioni del libretto, generando qualche inutile stridore col testo non compensato da un sostanziale guadagno in efficacia e pregnanza.

   È convenzionale nel taglio vocale anche il Cavaradossi di Riccardo Massi, che pure ha una bella canna, acuti sicuri che dispensa con generosità e, a dispetto di un canto non stentoreo ma nemmeno molto vario, una sana baldanza che non spiace se applicata a un personaggio non particolarmente sfaccettato.

   È invece assai varia nella dinamica e nell'accento la Tosca di Chiara Isotton, che fraseggia con classe, forte di una vocalità non torrenziale ma rigogliosa e rotonda, ampia nel registro medio grave e ben sfogata in acuto. Spiace dunque che alcune preziose intenzioni, come i pianissimi in chiusura di un Vissi d’arte ottimamente eseguito, si siano dovuti scontrare con un suono orchestrale sempre eccessivamente presente e spesso prevaricante sulle voci. Responsabilità in parte della sala, che da sempre sconta limiti di bilanciamento buca-palcoscenico praticamente con qualsiasi bacchetta, ma anche di Daniele Rustioni, che tiene la manopola del volume sempre verso la zona alta. Per il resto la sua Tosca si giova di un'Orchestra della Fenice in splendida serata per qualità complessiva e fluidità di legato, ma anche per flessibilità, pur spinta a un approccio alla partitura che si discosta sì da certi languori della tradizione, ma che non punta decisa neanche verso un taglio più spigoloso-analitico. È insomma una Tosca incalzante, con poco spazio per bellurie o concessioni ai cantanti, esuberante nei passaggi più drammatici ma altresì perfettibile nell'impronta personale.

   È all’altezza della situazione il resto del cast, a partire dal sagrestano di Matteo Peirone e da Mattia Denti, presenza assidua nei cast veneziani, che presta la sua solida voce di basso a Cesare Angelotti.   Completano il quadro il pavido Spoletta di Cristiano Olivieri, assai ben caratterizzato, Matteo Ferrara (Sciarrone) e Emanuele Pedrini, un carceriere. Spiace che in locandina non sia segnalato il nome del bravo solista del Coro dei Piccoli Cantori Veneziani - al solito preparati alla perfezione da Diana D’Alessio - che dà voce al pastorello. Inappuntabile il Coro della Fenice diretto da Alfonso Caiani nei suoi pochi ma fondamentali interventi.

A fine recita successo pieno e prolungato per tutta la compagnia.


31 luglio 2025

Così fan tutte nell'estate del Piccolo Opera Festival

   Nel Così fan tutte allestito quest’anno dal Piccolo Opera Festival nel parco del Castello di Spessa, Davide Garattini Raimondi declina la vena libertina che Mozart e Da Ponte infondono a piene mani nell’opera spostando l’ambientazione nel ‘68, in una comune hippie dominata da amore libero e qualche cannetta. Le sorelle ferraresi sono due ragazze “bene” e un po' snob che si trovano a seguire i rispettivi fidanzati “fattoni” e ben presto, dopo un po’ di trambusto iniziale, scoprono i piaceri di una vita più disinibita, con tutto quel che ne consegue.

foto Damijan Simčič

   Lo spostamento funziona, anche se la rivisitazione pensata dal regista privilegia il lato più disimpegnato e comico dell'opera, mentre rimane solo abbozzato lo spessore autenticamente tragico dei personaggi, anche per via di alcune scelte editoriali pienamente giustificate dal contesto, come il sacrificio delle due arie del tenore del secondo atto (peccato perché Chenghai Bao ha voce ed emissione assai educate e cesella un'eccellente "Aura amorosa") e gli sfalci al meraviglioso duetto tra Fiordiligi e Ferrando, il momento in cui la debolezza, le contraddizioni e le fragilità represse erompono con maggior forza.

   Non di meno quanto concertato dal regista si concretizza in uno spettacolo fresco e divertente, in cui i movimenti sono ben coordinati e certo non ci si annoia, anche grazie alla partecipazione all’azione da parte del coro preparato da Elia Macrì, eccellente anche dal punto di vista musicale, che anima gli spazi muovendosi tra palco e platea, e di un’enigmatica figura di contorno: una figurante, ben “adoperata” per vivacizzare la staticità di qualche numero chiuso, che scrive (e rivive?) la vicenda.

   Le scene sono di Paolo Vitale, il quale sfrutta pochi elementi caratterizzanti (una roulotte, un divano e un paio di tende da campeggio) ben inseriti in un palco naturale già di per sé assai suggestivo, ulteriormente valorizzato con giochi di luce perfettamente calibrati.

   È all'insegna della concretezza e del buonsenso la direzione di Federico Santi, sul podio di una GO! Borderless Orchestra discreta ma non propriamente impeccabile, che privilegia l’impulso ritmico, senza sdilinquimenti e appunto coniugando le ragioni del teatro con le esigenze di un evento che non dispone di tutti i comfort acustici della sala al chiuso.

   Nel cast, complessivamente valido, svettano le prove femminili. Benché l'amplificazione e il contesto all'aperto falsino il reale peso delle voci, Rei Itoh sembra avere tutte le note della parte di Fiordiligi, compresi i salti vertiginosi tra i registri che mettono in difficoltà anche i soprani più rodati, nonché un bella gamma di acuti sfavillanti. Marianna Acito è una Dorabella molto espressiva e musicale, Aida Turganbayeva una Despina centrata per arguzia, simpatia e verve. Chiudono il cast Marko Erzar, un Guglielmo dal colore vocale quasi tenorile ma ancora da maturare, e il solido Alfonso di Nicola Ciancio.

Successo caldo per tutta la compagnia.

4 luglio 2025

Dialogues des carmelites al Teatro La Fenice

   Prendendo alla lettera il titolo, Emma Dante costruisce i suoi Dialogues des carmelites, in scena per la prima volta al Teatro La Fenice, intorno ai rapporti interni alla comunità femminile del convento. La regista accantona dunque la dimensione storico-politica della vicenda, almeno fino al momento in cui il Terrore bussa alla porta, che pure è risolto in modo abbastanza compassato, senza restituire a pieno l’orrore e l’angoscia che infiammano il mondo circostante. Un'impostazione drammaturgica, che si concentra sulle dinamiche di solidarietà e fanatismo di questo microcosmo, legittima e perseguita con coerenza, ma che disinnesca parte della forza dell’opera, soprattutto nel terzo atto.


   Nella produzione, già recensita su queste pagine in occasione del debutto romano, i personaggi sono rappresentati come emanazioni viventi di opere pittoriche, idea in verità non delle più fresche: protagoniste sono delle suore in armatura ritratte dai bei costumi di Vanessa Sannino che dalla tela nascono e alla tela (bianca) ritornano, cancellate da una ghigliottina metaforica in un finale che si rivela freddamente anticlimatico.

   Se la blanda rilettura del contesto, che pur non altera di molto le linee portanti dell’opera, non risulta particolarmente incisiva, dal punto di vista tecnico lo spettacolo è ottimamente realizzato, sia nella concertazione dei movimenti di cantanti, mimi e ballerini, sia nell’illuminazione “storariana” di Cristian Zucaro, assai suggestiva, sia ancora nella movimentazione dei pochi elementi scenici di Carmine Maringola che pattinano sul palco senza farraginosità né inutili perdite di tempo nei passaggi tra i tanti quadri che compongono il lavoro di Poulenc.

   Il costo più salato sulla riuscita complessiva della produzione lo impone tuttavia una protagonista, Julie Cherrier-Hoffmann, inadeguata per la parte di Blanche de La Force, per la pochezza dello strumento - una voce piccolina che passa a fatica l'orchestra e che sale agli acuti con estrema fatica - ma anche per una personalità che non riesce a bucare la quarta parete.

   C’è poi un freno più generalizzato e sfumato, che pur incide: quello di una direzione firmata da Frédéric Chaslin, che è tanto diligente quanto plumbea e soverchiante, ma soprattutto poco predisposta a sfruttare i colori e le dinamiche, pur disponendo di un’Orchestra della Fenice che, al di là di un paio di piccoli incidenti, esprime una rotondità e una plasticità di suono ideali per il repertorio.

   C’è invece ben poco da eccepire al resto della compagnia, a partire da Vanessa Goikoetxea che dà vita a una meravigliosa Madame Lidoine (la nuova Priora) per presenza scenica e vocale. Anna Caterina Antonacci risolve da grande tragedienne la totemica parte di Madame de Croissy, mettendo in mostra uno strumento che sembra non aver perso niente né di smalto, né di fascino timbrico, né di volume.

   Molto positive le prove di Deniz Uzun (Mère Marie) e Veronica Marini (Soeur Constance), entrambe dotate di voce ampia e fascinosa, entrambe non immuni da qualche durezza di troppo negli estremi acuti.

   Juan Francisco Gatell, Chevalier de La Force, anche in un territorio apparentemente distante dal suo repertorio d’elezione, mette in mostra una vocalità limpida e sonora che non soffre neanche nei passaggi più scomodi e scoperti, così come convince totalmente per incisività del declamato Armando Noguera nel ruolo del padre Marquis de La Force. Inappuntabili per qualità del canto la Mère Jeanne di Valeria Girardello e la Soeur Mathilde di Loriana Castellano, e risulta altresì ben in parte L’Aumônier du Carmel di Jean-François Novelli .

   Nei suoi pochi minuti sul palco Marcello Nardis pennella tutte le ombre di un personaggio ambiguo come il primo Commissario, mentre Gianfranco Montresor, nella parte dell’Ufficiale, alla prima inciampa in una di quelle serate sfortunate in cui la voce proprio non ne vuole sapere di rispondere.

   Chiude il cast Paolo Vultaggio, impegnato a coprire quattro personaggi (Le Geôlier, Thierry, secondo Commissario e Monsieur Javelinot), cui assicura possanza e un bel timbro baritonale. Si comporta in maniera eccellente anche il coro preparato da Alfonso Caiani nei suoi interventi.

Successo caloroso per tutta la compagnia a fine recita.

1 luglio 2025

Cronache dallo Spring Tour 2025 della Gustav Mahler Jugendorchester

   Caso più unico che raro, il programma primaverile della Gustav Mahler Jugendorchester si è esaurito nei due concerti che hanno punteggiato la residenza al Teatro Verdi di Pordenone, senza espandersi nella abituale tournée continentale. Due sole date dunque. La prima in trasferta a Venzone con il giovane Christian Blex, conductor ormai completamente emancipato nella sostanza dall’etichetta di “assistant”, che nei suoi anni alla GMJO sta compiendo davanti agli occhi di chi lo osserva il grande salto dallo status di giovane talento a quello di brillante realtà. E poi il concerto canonico, proprio nel teatro pordenonese che da dieci anni è la casa dell’orchestra, con il "grande vecchio” del podio Christoph Eschenbach.

foto Luca D'Agostino / Phocus Agency

   Due approcci che si fatica a immaginare più distanti - flessibile e raffinato quello di Blex, denso e impetuoso quello di Eschenbach e, a dispetto dell’ormai veneranda età, sorprendentemente vivace - ma che danno la misura delle risorse di un’orchestra ancora una volta completamente rinnovata e ancora una volta straordinaria per qualità d’insieme e identità, anzi, che per quanto si apprezza in termini di rotondità e omogeneità del suono probabilmente sale sul palco in una delle sue migliori combinazioni recenti. Speculari anche i programmi proposti, che accostano a Bach alcune produzioni del Novecento post-bellico e un grande classico di repertorio ottocentesco.

   Il concerto nel Duomo di Venzone, che ha un’acustica benedetta, offre la possibilità, ormai rara, di ascoltare Bach su strumenti moderni e con un’orchestra corposa, ulteriormente ammorbidita dal riverbero delicato dell’ambiente. La Terza suite re maggiore BWV 1068 nelle mani di Blex non acquisisce tuttavia un’impronta tronfia né sussiegosa, ma unisce alla levigatezza del suono un incedere al tempo stesso fresco ma disteso, né eccessivamente indugiante anche nei momenti che potrebbero sollecitare qualche punta di compiacimento, come l’Aria.

   Questo impiego del legato duttile, abbinato e a una rifinitura perfetta nella cura dei bilanciamenti, si mantiene anche nel Concerto per orchestra d'archi di Bernd Alois Zimmermann, pezzo di rara esecuzione che meriterebbe ben altra considerazione, mentre Messagesquisse di Pierre Boulez - lavoro ricorsivo nella storia della GMJO, che l’ha proposto in passato proprio con il compositore sul podio - è quasi una parentesi che mette in mostra un comparto violoncelli sontuoso, con la parte solista affidata a uno sbalorditivo Bernardo Ferreira, che ha una presenza timbrica e carismatica da solista vero, non solo nel virtuosismo e nella capacità di “allargare” il suono del suo strumento, ma anche nel mordente con cui domina il manico.

   Più facile è misurare la maturità dell’interprete nel grande repertorio della Sinfonia n. 1 in do minore di Felix Mendelssohn-Bartholdy che Blex anima di un’energia travolgente ma mai confusionaria, mantenendo quel legato di sezione degli archi e soprattutto quello “di concertazione”, inteso come fluidità nel rimpallo dialogico tra voci diverse, che lascia emergere il genio di un Mendelssohn appena quindicenne ma già orchestratore illuminato.

   Quanto al main event del 17 giugno, dedicato alla memoria di Alfred Brendel, Premio Pordenone Musica 2018 mancato poco prima del concerto, sul podio è salito appunto Christoph Eschenbach, che ha dato forma a una sorprendente Ottava sinfonia di Beethoven. Non per l’approccio alla concertazione, che è quello che ci si aspetta da un direttore-pianista che tratta l’orchestra come un grande strumento da plasmare “in blocco” piuttosto che come un intreccio di linee diverse che si compongono, ma nell’impeto travolgente, quasi brutale, impresso alla pagina, vivificata con un’energia apparentemente incompatibile col gesto piccolo e didascalico. Non è dunque un Beethoven perbenino o ricondotto nel recinto del classicismo, ma sospinto da una forza tenace e continuamente sbalzato da animazioni che spuntano inattese e contrasti vertiginosi, anche a costo di spingere il suono vicino al limite sostenibile dai musicisti.

   Peculiare ma impegnativo il programma “vocale” scelto per la prima parte della serata, che ha attirato un pubblico meno folto di quanto l’evento avrebbe meritato, con un Matthias Goerne che cesella da liederista di razza - e dunque modellando la voce da un’ottava grave scura a un registro acuto che si schiarisce e flette in sonorità ora aperte, ora alitate, ora livide - due opere che sollecitano risorse differenti. Se la Cantata Ich habe genug BWV 82 di Bach esige destrezza nell’uso strumentale della voce, che Goerne domina al meglio nella seconda aria Schlummert ein, ihr matten Augen, The Wound-Dresser di John Adams, un pezzo di fine anni Ottanta su testi di Walt Whitman, benché perfettamente rifinito sia nell'amalgama orchestrale, sia nell’espressività del solista, soffre di uno sbilanciamento costante tra il peso dell’accompagnamento, che potrebbe essere ancor più straniante e terreo, e il solista.

   Successo calorosissimo e appuntamento rimandato ad agosto con la residenza estiva dell’orchestra, un concerto a Valvasone diretto dallo stesso Blex (14 agosto) e due date della tournée affidata a Manfred Honeck in programma per 2 e 3 settembre.

1 giugno 2025

Le ultime sinfonie di Mozart secondo Marc Minkowski

   Se Marc Minkowski ha avuto un pizzico di buona sorte nell'essere entrato in scena in un momento in cui il fermento intorno alla prassi storicamente informata iniziava ad esplodere e il terreno da esplorare era quasi completamente vergine, d'altro canto i risultati cui è giunto e il livello cui ha portato l'ensemble fondato nel 1982, i Musiciens du Louvre, sono meriti incontestabili. Oltre alla paternità di una delle formazioni barocche attualmente più apprezzate al mondo e all'affermazione come interprete di rara vivacità e fantasia, Minkowski è tra i pochi specialisti che hanno saputo imporsi in modo credibile anche al di fuori del recinto del repertorio preromantico, qualificandosi come voce credibile, e spesso illuminante, anche in produzioni ben più tarde.



   Le ultime tre sinfonie di Mozart portate in concerto al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, figurandosi come un ideale spartiacque tra questi mondi, sono il punto di incontro ideale per dare prova di un dominio totale dello stile e del suono orchestrale, che, avendo al contempo la limpidezza delle esecuzioni informate e un organico cameristico ma tutt’altro che esangue, permette di restituire sia le radici dei lavori proposti, sia le loro proiezioni nel secolo a venire.

   Per trattarsi di orchestra su strumenti d'epoca e che suona secondo prassi, Les Musiciens du Louvre esprimono infatti un suono straordinariamente dolce e corposo, che certo ha i limiti del genere - qualche sfilacciatura negli attacchi e limiti intrinseci nell’effetto “alone” dell’amalgama - ma un livello minimo di secchezza e sferragliamenti. D'altronde, al netto dell'ormai consolidata frequentazione con il programma proposto, portato in tournée anche a inizio anno, si sente la dimestichezza con repertori più tardi nella capacità di produrre densità e una fluidità di legato di sapore ottocentesco.

   Se la Sinfonia n. 39, pur nella sua dirompenza, palesa qualche limite di tenuta nel secondo movimento, la Sinfonia n. 40 in Sol minore KV 550 è entusiasmante per varietà e tenuta, dall’Allegro di apertura, dionisiaco e spumantino, fino a quello conclusivo, passando per un Andante dilatato e pennellato con sapienza fino ai limiti massimi sostenibili dall'orchestra, in cui si apprezza il grande mestiere nella gestione del direttore.

   Il piglio energico, mai disgiunto da un’attenzione al dettaglio, è il dato saliente di una Jupiter incalzante ma mai effettistica, in cui energia e tensione, financo la concitazione nei momenti più accesi, non vanno mai a discapito della chiarezza delle diverse linee strumentali.

Trionfo e saluto con bis, uno dei cavalli di battaglia dell’orchestra: l’ingresso di Polymnie dal IV atto de Les Boréades di Rameau.

26 aprile 2025

La prima Anna Bolena moderna al Teatro La Fenice

   L’Anna Bolena in scena al Teatro La Fenice, dove torna dopo un’assenza durata 168 anni, stimola una riflessione su quali possano essere i concetti portanti, sia dal punto di vista della messinscena, sia musicale, nel momento in cui si sceglie di proporre questo repertorio, problema che si manifesta in modo lampante in un'opera che non ha la compattezza di altri approdi successivi di Donizetti.


   Ad esempio Pier Luigi Pizzi, che firma regia, costumi e scene (uno spazio austero di un nero opprimente ben modellato dal disegno luci di Oscar Frosio), ha le idee chiare in merito. Idee che possono essere discutibili, ma che non di meno sono perseguite con coerenza estetica e intellettuale. Per lui Anna Bolena è un’opera “di cantanti” e, partendo da questo assunto, ad essi cede palco e scettro, limitandosi - si fa per dire - a disegnare intorno a loro una cornice elegante che si giova di movimenti parchi ma ben dosati del coro, che compone dei veri e propri tableaux vivant, mentre ai solisti è concessa maggiore libertà d’azione, anche sulla base delle personali inclinazioni, e di tenersi grossomodo in proscenio per proiettare al meglio le voci in sala.

   È invece più difficile afferrare il filo rosso che armonizza le performance vocali e quella musicale in senso lato. Performance che è, con diversi gradi di bontà, positiva in ogni sua componente, dai cantanti all’orchestra, ma che tradisce altresì una disomogeneità di visione e sensibilità di ogni singola parte in gioco. Né d’altro canto è sufficiente restituire la colossale partitura alla sua integrità - per quasi tre ore e mezza di musica - per rendere piena giustizia a Donizetti, anzi, se da un punto di vista culturale l’operazione è sicuramente meritoria, la scelta di rinunciare a qualsiasi taglio rende ancor più impegnativo il sostegno della tensione narrativa e più ampio il materiale da rifinire.

   Si apprezza dunque una protagonista, Lidia Fridman, che ha mezzi vocali di prim'ordine per resistenza, volume e ampiezza di estensione - la parte batte molto in basso e le note ci sono tutte, così come non manca all’appello nessun balzo in acuto -, ha un timbro sicuramente personale, di colore quasi mezzosopranile, e un approccio al canto tendente alla ricerca dell'omogeneità del suono, a dispetto della sfumatura, soprattutto nei recitativi. Non di meno la scrittura è pienamente soddisfatta sia nei passaggi più agili, sia dove la melodia si spiega in un legato più fluido (su tutti “Al dolce guidami”).

   Di contro la Giovanna di Seymour di Carmela Remigio ha uno strumento più lirico e un canto più “nudo” e vario, che privilegia l’articolazione della parola scenica sulla rotondità del suono, pur tuttavia senza sacrificare nulla della precisione musicale (basti citare ad esempio la chiarezza esemplare delle agilità). Ancor diverso il caso di Alex Esposito, che scolpisce ogni parola - già la sortita “Tremate voi?” è impressionante per forza e incisività - con un piglio in cui il declamato è spinto, pur senza eccessi, a tratteggiare un Enrico VIII vocalmente dominante quanto umanamente spregevole.

   Qual è dunque il punto? Che sembra mancare un passo in più nel coordinamento stilistico di tutti quei piccoli dettagli di espressione che si rifiniscono nelle settimane che precedono il debutto per plasmare le qualità dei singoli in disegno generale unitario. Allo stesso modo l’Orchestra della Fenice, che sotto la guida di Renato Balsadonna suona benissimo per precisione e per calibratura dei bilanciamenti interni, non sfrutta a pieno il ventaglio dinamico e coloristico offerto dalla partitura, risultando in definitiva tendente a una piattezza di fondo e, almeno da quanto si ascolta a fondo platea, pesante nei volumi.

   Resta da dire di Enea Scala, chiamato ad affrontare una parte che definire sfidante è poco: il suo Percy soffre in acuto nel primo atto ma si riscatta con un’eccellente esecuzione del terzetto e soprattutto della grande scena solistica nel secondo atto. Convince pienamente Manuela Custer che rifinisce il suo Smeton con un’attenzione per l’espressione da belcantista di classe.

Completano ottimamente il cast William Corrò nei panni di Lord Rochefort e il giovane Luigi Morassi, Sir Hervey, che si dimostra in possesso di materiale vocale di gran pregio. Molto positiva per compattezza e omogeneità anche la prova del Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani.

A fine recita successo caloroso per tutta la compagnia, con ovazioni per la protagonista Lidia Fridman.

15 aprile 2025

Primavera da Vienna

   Per i Wiener Symphoniker il ritorno a Trieste con il festival “Primavera da Vienna” è l’occasione per riallacciare il filo con la città che per prima ha ospitato, proprio al Politeama Rossetti nell’aprile del 1902, un concerto internazionale dell’allora neonata orchestra. Al netto delle evocazioni asburgiche, il progetto suggella la contiguità culturale e geografica tra le parti con tre programmi diversi di ispirazione grossomodo mitteleuropea: Wagner e Verdi nella serata di apertura, poi Mozart, Mahler e, ovviamente, l’operetta. 

   La prima giornata si apre con i ballabili di Macbeth, Aida e Don Carlos, che Petr Popelka cesella con un’attenzione spasmodica per il cavillo e con dettami di articolazione sorprendenti. Approccio che resta invariato nel piatto forte del programma, un primo atto di Die Walküre plasmato con tensione e altresì con una notevolissima abilità di concertazione degli equilibri e dei pesi sonori, pur a fronte di un’orchestra impressionante per dimensioni. Sul palco trionfa l’onnipotenza vocale di Michael Spyres, Siegmund, che dimostra una volta di più di poter balzare da Rossini a Wagner senza perdere né di cognizione stilistica, né di smalto. Sarah Wegener è una Sieglinde che ripiega voce e intenzioni in un canto quasi alitato per quanto è delicato e introspettivo, Georg Zeppenfeld un Hunding di timbro chiaro ma incisivo nell’accento e nella presenza. Purtroppo il Rossetti non è una sala da concerto vera e propria e la camera acustica non basta ad assicurare espansione e reattività di armonici e dinamiche.


Verdi_Wagner_Rossetti_c_Niesel-Reghenzani