Christian Blex è uno degli astri in ascesa della nuova generazione di direttori d'orchestra. Tedesco di nascita ma cosmopolita per formazione, Blex incarna il musicista moderno: colto, curioso ed eclettico, basti dire che in Italia si è fatto conoscere con i concerti alla guida della Gustav Mahler Jugendorchester in cui è balzato agilmente da Bach a Boulez, da Gabrieli a Strauss. Eppure il suo percorso - appena consacrato dalla vittoria dell’Herbert von Karajan Young Conductors Award - non è quello che ci aspetterebbe, anzi, si sviluppa parallelamente a un’educazione per così dire canonica, che di canonico ha ben poco: una laurea in filosofia all’Università di Warwick, un Master in Economia a Cambridge e un phd in via di conclusione ad Oxford. Poi gli studi in direzione alla Norwegian Academy of Music di Oslo e la borsa di studio presso la Karajan-Akademie dei Berliner Philharmoniker, dove ha lavorato come assistente di Kirill Petrenko.
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Christian Blex, foto Ole Wuttudal |
Dopo qualche anno di apprendistato, ora la carriera di Blex è giunta a quel punto di svolta in cui arrivano le scritture importanti, con tanti concerti in programma nella prossima stagione a partire dall’inaugurazione del Festival Cristofori di Padova, dove il 18 settembre dirigerà l’Orchestra di Padova e del Veneto con Vadym Kholodenko come solista.
Com’è arrivata la musica nella tua vita?
Anche se già suonavo il piano, l’amore per la musica è esploso nell'adolescenza con il jazz e il rock. Poi c’è stato un momento decisivo al liceo, quando l'insegnante di musica ci ha fatto ascoltare il preludio di Tristan und Isolde. È stato un terremoto. Ero abituato a suonare la musica che mi piaceva al pianoforte o con la chitarra ma in quel caso era impossibile, non funzionava. Così ho iniziato a pensare all’orchestra come strumento e alla direzione, anche se in modo astratto: la direzione, pensavo, è per prodigi che già a cinque anni sono in grado di eseguire le sonate di Beethoven.
Quando mi sono trasferito nel Regno Unito per l’università, ho iniziato a prendere lezioni private di composizione e direzione e, per puro caso, ho diretto piccole produzioni operistiche semi amatoriali all’università di Warwick. Un’esperienza tanto elettrizzante quanto folle, se ripenso oggi a dei ragazzi di vent'anni che allestiscono Le nozze di Figaro, per di più in inglese.
Il passaggio a Oslo quando avviene?
Ho completato gli studi universitari preparandomi per l’ingresso all’accademia musicale: ho dovuto recuperare tutta la parte di teoria, contrappunto e pianoforte classico che mi mancava. È stato un viaggio durato quasi cinque anni, con tutte le incertezze del caso. Nel frattempo ho fatto qualche piccolo lavoro di direzione.
Chi sono i tuoi maestri?
Inizialmente ho studiato con tre insegnanti inglesi, poi a Oslo con Ole Kristian Ruud e, durante due periodi all’estero, a Zurigo con Johannes Schlaefli e a Weimar con Nicolás Pasquet. Poi negli ultimi anni, lavorando con la Gustav Mahler Jugendorchester e a Berlino, ho avuto la fortuna di perfezionarmi con molti grandi direttori come Kirill Petrenko, Daniel Harding e Jakub Hrůša.
Come si sviluppa lo studio del mestiere? Quanto si lavora sul gesto e quanto sulla partitura?
La tecnica è qualcosa che si continua a rifinire, ma che si apprende nei primi anni, insieme allo studio degli spartiti. Il lavoro di assistente è diverso, non si ricevono vere e proprie lezioni dai maestri, ma si impara osservando come lavorano e discutendo di musica con loro e con i musicisti. Poi certo, capita di chiedere loro un consiglio su come risolvere un determinato passaggio.
Avendo lavorato con tanti grandi direttori, quali sono le qualità comuni che hai osservato in loro?
Ci sono almeno tre aspetti: uno tecnico-analitico che riguarda la parte musicale, uno psicologico, nella gestione delle risorse umane, e il lato etico. Partendo da quest'ultimo, i direttori di alto profilo condividono tutti la stessa etica del lavoro. Possono avere tecniche diverse, idee musicali diverse, ma l’ethos è il medesimo. Ciò significa innanzitutto che il centro del lavoro è la partitura e non il loro ego. Partono dunque dal dettato del compositore da interpretare nel modo più fedele per portare la pagina in vita. Poi c’è il rispetto per l’orchestra, che credo sia la cosa più importante. Rispetto che significa molte cose: che devi essere preparato, che devi avere qualcosa da dire ed essere in grado di aiutare l’orchestra a esprimersi al massimo delle proprie possibilità. Il che può avvenire in vari modi, sia mettendo i musicisti a proprio agio, sia insistendo sui passaggi complessi finché non riescono a dovere. Sai, le sinfonie di Beethoven non sono mai facili da suonare e non devono esserlo.
Poi tutti i grandi direttori che ho incontrato condividono una tecnica di bacchetta fenomenale. Diversa certo, perché ogni corpo è diverso e ognuno si muove a modo proprio, ma in tutti i casi eccezionale. E per quanto riguarda la gestione delle prove sono tutti estremamente efficienti nello sfruttare il tempo a disposizione ma altresì intransigenti nel non demordere se qualcosa non funziona, anche se richiede molte ripetizioni. Quando si lavora con un’orchestra bisogna tenere presente che le persone che hai di fronte studiano sul loro strumento da tutta la vita e quell’esperienza va rispettata, ma allo stesso tempo non si deve avere il timore di chiedere qualcosa in più.
Quando l’anno scorso hai diretto la Seconda di Brahms al Verdi di Pordenone, mi raccontasti molti dettagli interessanti sulla storia dell’interpretazione in materia di tempi, tradizione, sonorità ecc. Immagino che studi e ascolti le registrazioni del passato.
Sì, che ci piaccia o meno siamo gli esponenti finali di una storia che parte da lontano e lavoriamo con orchestre che provengono da quella storia. Dobbiamo conoscerla, sapere quando e come nasce: ci sono tradizioni che spuntano molto più tardi del compositore, altre vanno più indietro fino ad esso. Penso ad esempio alla musica ceca: c’è una catena ininterrotta di direttori che arriva fino a Suk e Dvorak, quindi se studi un pezzo di quel repertorio bisogna conoscere quello che faceva Bělohlávek, e così via.
Per quanto riguarda Brahms la tradizione risale a Fritz Steinbach, che era il suo direttore preferito, con cui hanno studiato ad esempio Fritz Busch e Arturo Toscanini, che nelle esecuzioni giovanili era molto vicino a quell’idea musicale. Ancor meglio se abbiamo registrazioni degli autori stessi, come nel caso di Richard Strauss. Si trova sempre qualcosa di interessante.
Quanto è stata importante l’esperienza alla Karajan-Akademie alla di Berlino?
A Berlino ho imparato una quantità incredibile di cose, sia dai direttori con cui ho lavorato, sia dall’orchestra. Ho tartassato di domande i musicisti per anni chiedendo informazioni di ogni tipo, su come suonano, sul perché l’orchestra di Berlino abbia quelle caratteristiche uniche, sulle loro esigenze e preferenze nelle prove. Ho imparato anche tantissimi dettagli di tecnica strumentale che mi sono utilissimi, o appunto sulla tradizione interpretativa di autori come Brahms o Bruckner. Quella di Berlino è davvero un accademia. Non vorrei suonasse arrogante, ma è come essere il garzone di bottega di un grande artista del Rinascimento che deve occuparsi un po’ di tutto e imparare qualsiasi cosa.
E l’esperienza come assistente di Kirill Petrenko com'è stata? Cosa fa un direttore assistente?
Ho fatto di tutto, dalla gestione di parte delle prove alla direzione dell’orchestra fuori scena, ad esempio nella Frau ohne Schatten. Poi c’è la preparazione delle parti, con la trascrizione di tutte le indicazioni musicali discusse con il maestro, o il bilanciamento degli equilibri dando suggerimenti al direttore.
A Berlino si respira ancora la tradizione dei grandi direttori che va indietro fino a Furtwängler, Nikisch e così via?
A Berlino ci sono ancora musicisti che hanno suonato con Karajan e ne ho parlato spesso con loro. Chiaramente sotto ogni direzione musicale il suono è in un certo senso cambiato, ma rimane inequivocabilmente il suono dei Berliner Philharmoniker e questo credo dipenda innanzitutto da una cosa: la cultura del lavoro. Il mindset dei musicisti è rimasto lo stesso. Ognuno si prende la responsabilità sia di suonare con un'intensità estrema, sia di essere sempre in ascolto degli altri. Credo che questa cosa sia radicata nell’identità dell’orchestra da sempre.
Com’è arrivata la chiamata della Gustav Mahler Jugendorchester?
Alexander Meraviglia Crivelli (il direttore generale) è venuto ad ascoltarmi in un concerto al Castello Esterházy con l'accademia Karajan e mi ha chiesto se fossi interessato. Certo che ero interessato, parliamo di un’orchestra leggendaria che ha collaborato con i direttori più importanti degli ultimi decenni. Con la GMJO si ha l’occasione di dirigere e provare a fondo il grande repertorio sinfonico. Il mio primo tour è stato nel 2023 con Daniele Gatti: avevamo in programma la Prima sinfonia e l’Adagio della Decima di Mahler e mi sono trovato ad avere nove sessioni di prove da gestire da solo, con un’orchestra da istruire. È un’opportunità che non hai da nessun'altra parte.
Si impara molto?
Tantissimo. Nelle settimane scorse con la GMJO abbiamo lavorato sulla Nona sinfonia di Bruckner e sulla Quinta di Čajkovskij. Durante le prove mi sono reso conto che per l’orchestra è molto complicato passare dall'uno all’altro, soprattutto per quanto riguarda il suono degli archi. Verrebbe da pensare che i due compositori siano accomunati da sonorità piene, sostenute e legate, ma ci sono delle differenze tecniche in termini di vibrato e di colore sorprendenti. Se suoni Bruckner con il suono di Čajkovskij esce qualcosa di sbagliato, di kitsch. Il pericolo maggiore con Bruckner è pensarlo verticalmente anziché orizzontalmente: deve sempre essere cantabile. Certo, ci sono momenti isolati che possono suonare persino apocalittici, ma per il resto va ricercata una continuità nella frase. In Čajkovskij viceversa c’è un'intensità emozionale che esige una maggior misura, non bisogna aggiungere zucchero al miele. Sono un fermo sostenitore della tesi della scuola sanpietroburghese per cui Čajkovskij va suonato con approccio al tempo e al rubato di stampo classicistico: ogni cosa è scritta, non c’è quasi spazio per l’interpretazione e non serve forzare niente, la musica ha una sua forza immediata. Puoi suonare con un vibrato molto intenso, legato e sostenuto, ma la cornice deve restare intatta.
Credi che il mestiere del direttore oggi sia diverso rispetto al passato? C’è un repertorio sempre più ampio, le possibilità di scelta sono apertissime, bisogna conoscere la prassi storicamente informata. Insomma, il bagaglio da possedere è enorme.
Non sono certo che sia così. Se ascoltiamo due contemporanei come Toscanini e Furtwängler dirigere Beethoven o Brahms, sono agli antipodi. Anzi, credo che in passato i direttori avessero una libertà maggiore, almeno fino alla guerra, che ha segnato una linea di demarcazione. Non sono nemmeno convinto che il repertorio oggi sia più ampio, perché in pratica nelle stagioni sinfoniche Mozart o Haydn si ascoltano sempre più di rado, quindi in un certo senso il repertorio ormai è ristretto alla fascia che va da Beethoven a Strauss, con qualche escursione nella contemporaneità più audace. Credo che dovremmo proporre la musica settecentesca più spesso, ma è diventato difficile perché se un tempo Bach e Brahms venivano eseguiti in modo abbastanza simile, oggi li facciamo diversamente, per cui se vuoi eseguire Bach devi conoscere bene la prassi dell’epoca.
Rispetto al passato è cambiato anche il rapporto tra direttori e orchestra. È facile fare il dittatore, ma non credo conduca a risultati migliori e non credo che alla fine della giornata ci lasci in uno stato d'animo migliore. Significa anche che dobbiamo lavorare un po’ di più, perché oggi per far passare un' idea non basta più imporla, ma bisogna avere degli argomenti convincenti. Però la gente persuasa suona meglio della persona spaventata.
Tra i due estremi in cui possiamo collocare i musicisti, quelli più eccentrici e quelli che cercano la massima fedeltà al testo, qual è il bilanciamento ideale?
Ci sono artisti come Sergiu Celibidache, Yehudi Menuhin o Maria Callas che hanno una tale personalità da rendersi immediatamente riconoscibili e trovo queste persone estremamente affascinanti. D’altro canto credo che loro si vedessero come artisti che cercano la massima fedeltà al testo. Questo per dire che, anche se un interprete ci sembra estremo, non significa che la sua etica del lavoro sia diversa da chi appare invece più ordinario. Io spero di essere percepito come un direttore che cerca di stare dietro allo spartito anziché di fronte ad esso.
Non c’è una parte del pubblico che spinge verso l’originalità a tutti i costi?
Credo che la cosa affascinante sia che, benché tutti gli interpreti si sforzino di rispettare ciò che c’è scritto, i risultati sono sempre diversi, talora estremamente diversi. È la bellezza di questo mestiere. Ognuno di noi cerca di fare quello che c’è nello spartito eppure l'interpretazione di ciascuno differisce dalle altre. Chi ha capito questa cosa più di chiunque altro è stato Gustav Mahler: nelle sue partiture c’è scritto tantissimo, al punto che si potrebbe pensare che abbia fissato le sue opere in modo talmente stringente da permettere una sola via possibile, invece queste annotazioni sono calibrate per consentire un’ampia libertà di movimento all’interprete.
Esistono opere inavvicinabili per un giovane direttore, sia da un punto di vista tecnico che per il peso della tradizione?
Credo dipenda dalle circostanze. Se mi chiedi: dirigeresti la Nona di Bruckner con i Wiener Philharmoniker? No, non credo di essere pronto, ma con un’orchestra più piccola che non abbia una tradizione ingombrante alle spalle lo farei, soprattutto dopo aver imparato così tanto su Bruckner a Berlino e con la GMJO. Cito una cosa che disse Barenboim, quando fu criticato aspramente per aver deciso di suonare le ultime sonate di Beethoven da giovanissimo: forse è presto, forse no, ma inizio a suonarle ora così quando avrò sessant’anni le avrò suonate per tutta la vita e le conoscerò a fondo. Perché aspettare di essere anziani per suonare qualcosa? Studiare un brano ed eseguirlo, dovendo risolvere tutti i problemi pratici che si presentano, sono cose diverse e l’esperienza aiuta nel processo di maturazione. Certo se non hai mai diretto un'opera di Wagner non è molto saggio iniziare da Bayreuth. Poi ogni repertorio ha le sue peculiarità, ad esempio le sinfonie di Sibelius sono molto difficili da dirigere da un punto di vista tecnico. Oppure Haydn. Tutti dicono che serve maturità per dirigere Bruckner, ma vogliamo parlare di Haydn?
Un giovane direttore prende a modello i grandi del passato? Chi in particolare?
Chiunque di noi guarda a Carlos Kleiber, ma è qualcosa di inimitabile. Stimo moltissimo Harnoncourt, molte cose di Karajan, Richard Strauss, trovo molto interessanti Scherchen e Fritz Busch. E chiaramente Claudio Abbado ha avuto una grande influenza su di me, anche perché avendo lavorato con i Berliner Philharmoniker, dove ci sono ancora tanti musicisti che hanno iniziato con lui, e con la GMJO, posso dire che il suo spirito è ancora presente.
C’è anche l’opera nei tuoi piani futuri?
Sì, voglio assolutamente fare l'opera.
A proposito di futuro, che impegni ti aspettano per la prossima stagione?
Dopo il concerto al Festival Cristofori di Padova, nei prossimi mesi dirigerò la Malmö Symphony Orchestra, l’Aarhus Symfoniorkester, l’Odense Symfoniorkester, la Brussels Philharmonic, la Norwegian Radio Orchestra e sarò a Bolzano con l’Orchestra Haydn, oltre ad altri impegni ancora da confermare. Più avanti ho in programma una registrazione con i Bamberger Symphoniker e tornerò a dirigere la Kiev Symphony, con cui collaboro ormai da qualche anno, alla Philharmonie di Berlino.
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