31 luglio 2025

Così fan tutte nell'estate del Piccolo Opera Festival

   Nel Così fan tutte allestito quest’anno dal Piccolo Opera Festival nel parco del Castello di Spessa, Davide Garattini Raimondi declina la vena libertina che Mozart e Da Ponte infondono a piene mani nell’opera spostando l’ambientazione nel ‘68, in una comune hippie dominata da amore libero e qualche cannetta. Le sorelle ferraresi sono due ragazze “bene” e un po' snob che si trovano a seguire i rispettivi fidanzati “fattoni” e ben presto, dopo un po’ di trambusto iniziale, scoprono i piaceri di una vita più disinibita, con tutto quel che ne consegue.

foto Damijan Simčič

   Lo spostamento funziona, anche se la rivisitazione pensata dal regista privilegia il lato più disimpegnato e comico dell'opera, mentre rimane solo abbozzato lo spessore autenticamente tragico dei personaggi, anche per via di alcune scelte editoriali pienamente giustificate dal contesto, come il sacrificio delle due arie del tenore del secondo atto (peccato perché Chenghai Bao ha voce ed emissione assai educate e cesella un'eccellente "Aura amorosa") e gli sfalci al meraviglioso duetto tra Fiordiligi e Ferrando, il momento in cui la debolezza, le contraddizioni e le fragilità represse erompono con maggior forza.

   Non di meno quanto concertato dal regista si concretizza in uno spettacolo fresco e divertente, in cui i movimenti sono ben coordinati e certo non ci si annoia, anche grazie alla partecipazione all’azione da parte del coro preparato da Elia Macrì, eccellente anche dal punto di vista musicale, che anima gli spazi muovendosi tra palco e platea, e di un’enigmatica figura di contorno: una figurante, ben “adoperata” per vivacizzare la staticità di qualche numero chiuso, che scrive (e rivive?) la vicenda.

   Le scene sono di Paolo Vitale, il quale sfrutta pochi elementi caratterizzanti (una roulotte, un divano e un paio di tende da campeggio) ben inseriti in un palco naturale già di per sé assai suggestivo, ulteriormente valorizzato con giochi di luce perfettamente calibrati.

   È all'insegna della concretezza e del buonsenso la direzione di Federico Santi, sul podio di una GO! Borderless Orchestra discreta ma non propriamente impeccabile, che privilegia l’impulso ritmico, senza sdilinquimenti e appunto coniugando le ragioni del teatro con le esigenze di un evento che non dispone di tutti i comfort acustici della sala al chiuso.

   Nel cast, complessivamente valido, svettano le prove femminili. Benché l'amplificazione e il contesto all'aperto falsino il reale peso delle voci, Rei Itoh sembra avere tutte le note della parte di Fiordiligi, compresi i salti vertiginosi tra i registri che mettono in difficoltà anche i soprani più rodati, nonché un bella gamma di acuti sfavillanti. Marianna Acito è una Dorabella molto espressiva e musicale, Aida Turganbayeva una Despina centrata per arguzia, simpatia e verve. Chiudono il cast Marko Erzar, un Guglielmo dal colore vocale quasi tenorile ma ancora da maturare, e il solido Alfonso di Nicola Ciancio.

Successo caldo per tutta la compagnia.

4 luglio 2025

Dialogues des carmelites al Teatro La Fenice

   Prendendo alla lettera il titolo, Emma Dante costruisce i suoi Dialogues des carmelites, in scena per la prima volta al Teatro La Fenice, intorno ai rapporti interni alla comunità femminile del convento. La regista accantona dunque la dimensione storico-politica della vicenda, almeno fino al momento in cui il Terrore bussa alla porta, che pure è risolto in modo abbastanza compassato, senza restituire a pieno l’orrore e l’angoscia che infiammano il mondo circostante. Un'impostazione drammaturgica, che si concentra sulle dinamiche di solidarietà e fanatismo di questo microcosmo, legittima e perseguita con coerenza, ma che disinnesca parte della forza dell’opera, soprattutto nel terzo atto.


   Nella produzione, già recensita su queste pagine in occasione del debutto romano, i personaggi sono rappresentati come emanazioni viventi di opere pittoriche, idea in verità non delle più fresche: protagoniste sono delle suore in armatura ritratte dai bei costumi di Vanessa Sannino che dalla tela nascono e alla tela (bianca) ritornano, cancellate da una ghigliottina metaforica in un finale che si rivela freddamente anticlimatico.

   Se la blanda rilettura del contesto, che pur non altera di molto le linee portanti dell’opera, non risulta particolarmente incisiva, dal punto di vista tecnico lo spettacolo è ottimamente realizzato, sia nella concertazione dei movimenti di cantanti, mimi e ballerini, sia nell’illuminazione “storariana” di Cristian Zucaro, assai suggestiva, sia ancora nella movimentazione dei pochi elementi scenici di Carmine Maringola che pattinano sul palco senza farraginosità né inutili perdite di tempo nei passaggi tra i tanti quadri che compongono il lavoro di Poulenc.

   Il costo più salato sulla riuscita complessiva della produzione lo impone tuttavia una protagonista, Julie Cherrier-Hoffmann, inadeguata per la parte di Blanche de La Force, per la pochezza dello strumento - una voce piccolina che passa a fatica l'orchestra e che sale agli acuti con estrema fatica - ma anche per una personalità che non riesce a bucare la quarta parete.

   C’è poi un freno più generalizzato e sfumato, che pur incide: quello di una direzione firmata da Frédéric Chaslin, che è tanto diligente quanto plumbea e soverchiante, ma soprattutto poco predisposta a sfruttare i colori e le dinamiche, pur disponendo di un’Orchestra della Fenice che, al di là di un paio di piccoli incidenti, esprime una rotondità e una plasticità di suono ideali per il repertorio.

   C’è invece ben poco da eccepire al resto della compagnia, a partire da Vanessa Goikoetxea che dà vita a una meravigliosa Madame Lidoine (la nuova Priora) per presenza scenica e vocale. Anna Caterina Antonacci risolve da grande tragedienne la totemica parte di Madame de Croissy, mettendo in mostra uno strumento che sembra non aver perso niente né di smalto, né di fascino timbrico, né di volume.

   Molto positive le prove di Deniz Uzun (Mère Marie) e Veronica Marini (Soeur Constance), entrambe dotate di voce ampia e fascinosa, entrambe non immuni da qualche durezza di troppo negli estremi acuti.

   Juan Francisco Gatell, Chevalier de La Force, anche in un territorio apparentemente distante dal suo repertorio d’elezione, mette in mostra una vocalità limpida e sonora che non soffre neanche nei passaggi più scomodi e scoperti, così come convince totalmente per incisività del declamato Armando Noguera nel ruolo del padre Marquis de La Force. Inappuntabili per qualità del canto la Mère Jeanne di Valeria Girardello e la Soeur Mathilde di Loriana Castellano, e risulta altresì ben in parte L’Aumônier du Carmel di Jean-François Novelli .

   Nei suoi pochi minuti sul palco Marcello Nardis pennella tutte le ombre di un personaggio ambiguo come il primo Commissario, mentre Gianfranco Montresor, nella parte dell’Ufficiale, alla prima inciampa in una di quelle serate sfortunate in cui la voce proprio non ne vuole sapere di rispondere.

   Chiude il cast Paolo Vultaggio, impegnato a coprire quattro personaggi (Le Geôlier, Thierry, secondo Commissario e Monsieur Javelinot), cui assicura possanza e un bel timbro baritonale. Si comporta in maniera eccellente anche il coro preparato da Alfonso Caiani nei suoi interventi.

Successo caloroso per tutta la compagnia a fine recita.

1 luglio 2025

Cronache dallo Spring Tour 2025 della Gustav Mahler Jugendorchester

   Caso più unico che raro, il programma primaverile della Gustav Mahler Jugendorchester si è esaurito nei due concerti che hanno punteggiato la residenza al Teatro Verdi di Pordenone, senza espandersi nella abituale tournée continentale. Due sole date dunque. La prima in trasferta a Venzone con il giovane Christian Blex, conductor ormai completamente emancipato nella sostanza dall’etichetta di “assistant”, che nei suoi anni alla GMJO sta compiendo davanti agli occhi di chi lo osserva il grande salto dallo status di giovane talento a quello di brillante realtà. E poi il concerto canonico, proprio nel teatro pordenonese che da dieci anni è la casa dell’orchestra, con il "grande vecchio” del podio Christoph Eschenbach.

foto Luca D'Agostino / Phocus Agency

   Due approcci che si fatica a immaginare più distanti - flessibile e raffinato quello di Blex, denso e impetuoso quello di Eschenbach e, a dispetto dell’ormai veneranda età, sorprendentemente vivace - ma che danno la misura delle risorse di un’orchestra ancora una volta completamente rinnovata e ancora una volta straordinaria per qualità d’insieme e identità, anzi, che per quanto si apprezza in termini di rotondità e omogeneità del suono probabilmente sale sul palco in una delle sue migliori combinazioni recenti. Speculari anche i programmi proposti, che accostano a Bach alcune produzioni del Novecento post-bellico e un grande classico di repertorio ottocentesco.

   Il concerto nel Duomo di Venzone, che ha un’acustica benedetta, offre la possibilità, ormai rara, di ascoltare Bach su strumenti moderni e con un’orchestra corposa, ulteriormente ammorbidita dal riverbero delicato dell’ambiente. La Terza suite re maggiore BWV 1068 nelle mani di Blex non acquisisce tuttavia un’impronta tronfia né sussiegosa, ma unisce alla levigatezza del suono un incedere al tempo stesso fresco ma disteso, né eccessivamente indugiante anche nei momenti che potrebbero sollecitare qualche punta di compiacimento, come l’Aria.

   Questo impiego del legato duttile, abbinato e a una rifinitura perfetta nella cura dei bilanciamenti, si mantiene anche nel Concerto per orchestra d'archi di Bernd Alois Zimmermann, pezzo di rara esecuzione che meriterebbe ben altra considerazione, mentre Messagesquisse di Pierre Boulez - lavoro ricorsivo nella storia della GMJO, che l’ha proposto in passato proprio con il compositore sul podio - è quasi una parentesi che mette in mostra un comparto violoncelli sontuoso, con la parte solista affidata a uno sbalorditivo Bernardo Ferreira, che ha una presenza timbrica e carismatica da solista vero, non solo nel virtuosismo e nella capacità di “allargare” il suono del suo strumento, ma anche nel mordente con cui domina il manico.

   Più facile è misurare la maturità dell’interprete nel grande repertorio della Sinfonia n. 1 in do minore di Felix Mendelssohn-Bartholdy che Blex anima di un’energia travolgente ma mai confusionaria, mantenendo quel legato di sezione degli archi e soprattutto quello “di concertazione”, inteso come fluidità nel rimpallo dialogico tra voci diverse, che lascia emergere il genio di un Mendelssohn appena quindicenne ma già orchestratore illuminato.

   Quanto al main event del 17 giugno, dedicato alla memoria di Alfred Brendel, Premio Pordenone Musica 2018 mancato poco prima del concerto, sul podio è salito appunto Christoph Eschenbach, che ha dato forma a una sorprendente Ottava sinfonia di Beethoven. Non per l’approccio alla concertazione, che è quello che ci si aspetta da un direttore-pianista che tratta l’orchestra come un grande strumento da plasmare “in blocco” piuttosto che come un intreccio di linee diverse che si compongono, ma nell’impeto travolgente, quasi brutale, impresso alla pagina, vivificata con un’energia apparentemente incompatibile col gesto piccolo e didascalico. Non è dunque un Beethoven perbenino o ricondotto nel recinto del classicismo, ma sospinto da una forza tenace e continuamente sbalzato da animazioni che spuntano inattese e contrasti vertiginosi, anche a costo di spingere il suono vicino al limite sostenibile dai musicisti.

   Peculiare ma impegnativo il programma “vocale” scelto per la prima parte della serata, che ha attirato un pubblico meno folto di quanto l’evento avrebbe meritato, con un Matthias Goerne che cesella da liederista di razza - e dunque modellando la voce da un’ottava grave scura a un registro acuto che si schiarisce e flette in sonorità ora aperte, ora alitate, ora livide - due opere che sollecitano risorse differenti. Se la Cantata Ich habe genug BWV 82 di Bach esige destrezza nell’uso strumentale della voce, che Goerne domina al meglio nella seconda aria Schlummert ein, ihr matten Augen, The Wound-Dresser di John Adams, un pezzo di fine anni Ottanta su testi di Walt Whitman, benché perfettamente rifinito sia nell'amalgama orchestrale, sia nell’espressività del solista, soffre di uno sbilanciamento costante tra il peso dell’accompagnamento, che potrebbe essere ancor più straniante e terreo, e il solista.

   Successo calorosissimo e appuntamento rimandato ad agosto con la residenza estiva dell’orchestra, un concerto a Valvasone diretto dallo stesso Blex (14 agosto) e due date della tournée affidata a Manfred Honeck in programma per 2 e 3 settembre.