C’è tutto un filone di repertorio che, benché sia entrato correntemente nelle stagioni canoniche di quella che Bernstein chiamava "musica esatta", ha peculiarità borderline che lo avvicinano alla produzione disimpegnata e popolare da cui sono fiorite tutte le diramazioni di jazz, blues, ragtime e così via. Ed è un repertorio estremamente insidioso perché, più che il virtuosismo strumentale, o per meglio dire oltre al virtuosismo strumentale, richiede tutta una grammatica espressiva peculiare, fatta di suoni biascicati e sporchi, ora graffiati, ora notturni, e una gestione trascinata ai limiti dell’incuranza del ritmo. Per questo molti ci si perdono, trattandolo con una forbitezza fuori luogo, come a volerlo nobilitare, o semplicemente perché incapaci di coglierne quel dato informale e sbadiglione che ne anima la pulsazione.
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C’è poi una necessità ineludibile, condivisa dalla gran parte delle espressioni artistiche improntate a un’apparente semplicità e alla leggerezza: bisogna saperle eseguire divinamente, perché qualsiasi sciatteria mortifica l’esito complessivo volgarizzando o, peggio ancora, banalizzandone le radici.
E “divinamente” è come suona la Chamber Orchestra of Europe, nei soli spettacolari delle prime parti - si citano clarinetto e corno francese, senza far torto agli altri - e in una qualità d’insieme che, al solito, si apprezza soprattutto negli scarti più rapidi a dinamica soffusa. E c’è poi Antonio Pappano, il quale non mira tanto a un andamento strascicato e a una gestione scostante e pigra del tempo, ma piuttosto a una pulsazione ritmica serrata, che non sgarra neanche nelle frasi più malinconiche, ammantate di un sentimentalismo che non è mai dissimulato né elegantizzato, ma autenticamente di cuore.
Se il Concerto per pianoforte e orchestra in Sol maggiore di Ravel è quel lavoro meraviglioso che tutti conoscono, in cui orchestra e pianista dialogano spartendosi una scrittura raffinatissima e cangiante, che il solista Bertrand Chamayou e la COE rendono al meglio, entusiasmano anche le pagine affiancate. La Création du mond di Darius Milhaud e le variazioni da I got Rhythm di George Gershwin danno altresì modo alla formazione di esprimersi in organici e nuances diversi, più sofisticata e salottiera la prima, più trascinante la seconda. È tecnicamente formidabile anche l’esecuzione del balletto Fancy Free, opera non tra le più note di Leonard Bernstein che, benché renda evidente la sua fantasia d’orchestratore, appare più manierata di altri suoi lavori più celebri e interessanti.
Chiamato agli straordinari, e dunque protagonista per quattro pezzi su quattro, Bertrand Chamayou si conferma un pianista sublime anche in questo repertorio, per l’esattezza e il nitore del tocco, per la tenuta ritmica, per la totale assenza di retorica anche nelle pagine più languide e, nondimeno, per la capacità di dialogare con l’orchestra facendosi accompagnatore quando necessario e prendendosi la scena nei momenti in cui i riflettori puntano sul pianoforte.
Successo calorosissimo per tutti.
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