Come gli altri massimi esponenti del pianismo per così dire “internazionalizzato” che è andato imponendosi negli ultimi decenni, Yuja Wang sta bene in ogni vestito. Metaforicamente parlando, sia chiaro, le divagazioni circa i suoi cambi di outfit su cui si sono spesi fiumi di inchiostro al pubblico dei concerti interessano il giusto, cioè molto poco. È invece ben altrimenti interessante osservarla balzare di repertorio in repertorio, mutando di stile com’è ormai scontato, ma senza perdere l’identità che la definisce. Così se l’abito-Bach (Concerto n. 5 in fa minore BWV 1056) se lo cuce addosso senza asciugare troppo l'espressività ⎼ tratto appunto comune a questo filone di musicisti contemporanei, che pur consapevoli della lezione filologica non rinunciano a prendersi qualche libertà nell’avvicinare i compositori più antichi, senza fingere che nel mezzo non ci sia stato l’Ottocento con le sue rivoluzioni ⎼ anche il Šostakóvič del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in fa maggiore op. 102 ha un'impronta più ibrida e "globalizzata", in sostanza più facilmente esportabile in modo da ingraziarsi ogni palato. È per certi versi addolcito e solare, poco disturbante e poco "sporco", ma suonato divinamente.
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©JuliaWesely |
Wang incarna infatti un pianismo prodigioso per controllo, sia del suono che di fraseggio e dinamiche, ha mani leggere e, come si arguisce al solo osservarne l’aspetto gracile, si gioca le sue carte migliori nei piani e pianissimi, controllati quasi senza affondare le dita nei tasti, piuttosto che nei passaggi di forza che sono sì brillanti, ma difettano di un briciolo di muscolatura. O meglio, ne difettano in una situazione in cui la direzione è nominalmente affidata alla pianista stessa, ma nei fatti la agisce in delega la spalla della Mahler Chamber Orchestra, Matthew Truscott, che chiaramente dal primo leggio può solo dare qualche attacco o aggiustare il tiro con un cenno del capo laddove qualcuno perda l’orientamento, ma certo non bilanciare i volumi, che non sono sempre favorevoli alla pianista. Tecnica a parte, in Wang c'è anche una consapevolezza assoluta dello sviluppo musicale, che pare sì computerizzato, tanto è perfettamente misurato, ma non al punto da risultare algido o distaccato. Le frasi di sortita dell'Andante ad esempio, oltre alla purezza miracolosa del tocco, sono articolate con una libertà ritmica e dinamica in cui è davvero difficile non riconoscere l'intelligenza musicale della grande artista, indipendentemente dai gusti individuali. È un modo di suonare fortemente improntato al virtuosismo non privo di detrattori, le cui ragioni sono intuibili ma difficilmente oggettivabili. Che si possa ravvisare in questo “gusto” un velo di freddezza è lecito come ogni punto di vista soggettivo, tuttavia è difficile non restare stregati di fronte a cotanta onnipotenza tecnica.
I minimi problemi di concertazione che appesantiscono il concerto di Šostakóvič non si palesano nella Sinfonia n. 31 in re maggiore di Haydn, né tantomeno nell'Ottetto per strumenti a fiato di Igor Stravinskij, replicati pari pari nei due concerti in serie che ormai sono diventati l’abitudine nella stagione estiva del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.
La prima, condotta dallo stesso Truscott, chiaramente non può essere illuminata dalla zampata di una bacchetta terza, ma è perfettamente dipanata e suonata, nell'accezione più nobile del termine. Un Haydn senza sottotesti, limpido e vivace, oltre che ineccepibile dal punto di vista strumentale. L’Ottetto mette in vetrina un ensemble di fiati di prim'ordine che enfatizza l'impronta neoclassica del lavoro, piuttosto che avventurarsi nelle sue arditezze jazzistiche, ma non per questo lo priva di spirito e giocosità.
Il teatro, decisamente più gremito nel secondo concerto, saluta trionfalmente Yuja Wang, cordialmente tutti gli altri.