18 novembre 2019

La favola di Orfeo

È molto probabile che la macchina del tempo a teatro si inceppi, poiché ogni spettacolo la propria ragion d'essere deve saperla trovare nel presente, non nel passato remoto. Vi sono delle eccezioni, come il Falstaff in stile Globe che lo scorso anno inaugurò il Vicenza Opera Festival. Iván Fischer, che è mente e braccio della rassegna, ha tentato il raddoppio, giocandosi un Orfeo di Monteverdi (anno 1607) al Teatro Olimpico, che è su per giù coetaneo, come l'avrebbero messo in scena in quei primi decenni di Seicento. Non solo, proprio a volerne riprendere lo spirito “originale” fino in fondo, Fischer ha ricostruito la scena finale di Striggio, all’epoca emendata perché ritenuta sconveniente, componendone la musica, sicché l’opera si conclude in un’esaltazione dionisiaca, tra baccanti inseguite da un fauno e parodie botticellesche. Così si chiude il cerchio in un allestimento che parte come massima celebrazione dell’Arcadia.



Il risultato però è interlocutorio. Ovviamente l’esecuzione musicale è di altissimo profilo, visto che la Iván Fischer Opera Company che sta in buca è diretta emanazione di quella meravigliosa macchina sonora che è la Budapest Festival Orchestra, con gli opportuni aggiustamenti d’organico e l’aggiunta delle linee necessarie al basso continuo. Fischer concerta da padreterno, lascia sgorgare ogni gesto musicale così che sia propedeutico alla scena, ne accompagna i tempi, eppure l’ottima esecuzione fatica a scavallare nella grande interpretazione. Forse a causa dell’impostazione di una messa in scena talmente lineare da sfiorare l’ingenuità, il cui difetto non è la semplicità ma la semplificazione, forse perché il cast, benché complessivamente discreto, manca di grandi personalità.
Chi potrebbe diventarlo nel futuro prossimo è Emőke Baráth, che si fa carico delle parti di Euridice e della Musica con tutta la sensibilità nel porgere necessaria. Valerio Contaldo è un Orfeo sciaguratamente agghindato da hippie, ma musicalmente ineccepibile e ben cesellato nell’espressività.
Buona la Messaggera di Luciana Mancini, ancorché forzosamente teatrale, in crescendo il controtenore Michal Czerniawski che è prima un pastore e poi Speranza. Gli altri sono valevoli, come pure corpo di ballo.
Chi sta invece al di sopra di ogni lode è il coro preparato da Soma Dinyés.

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