Trieste, abbiamo un problema: si chiama futuro. La stagione del Verdi è finita e adesso si può provare a tirare qualche somma. Il punto è che quando ci si trova a fare conti con un pubblico mediamente reazionario, che osteggia ogni novità, la scelta più facile – e probabilmente inevitabile, considerate le difficoltà di gestione di un teatro italiano nel 2019, tra salti mortali e un bilancio da far quadrare – è assecondarlo. Il pubblico vuole la tradizione? Diamogli la tradizione. Il presente mettiamolo in un cassetto, ben chiuso a chiave che non se ne esca neanche per respirare, o farsi respirare.
Sul breve funziona, per carità, sul lungo periodo invece è un investimento a perdere, perché raccattare nuovi adepti con una proposta fuori dal mondo e fuori dal tempo è pressoché impossibile. Chi ci andrà a teatro a Trieste da qui a dieci o vent’anni, se la programmazione strizza l’occhio solo alla fetta più “passatista” degli abbonati?
La tradizione ci sta, beninteso, e ha il sacrosanto diritto di residenza in qualsiasi stagione operistica, ma non può essere l’unico orizzonte verso cui puntare il timone. Questo non è un atto d’accusa né verso l’attuale dirigenza, che semplicemente deve tenere in piedi un teatro con tutte le difficoltà del caso, né verso il pubblico triestino in sé, che è disabituato a esperire qualcosa di diverso dal già visto e rivisto. Come se ne esce? Io non lo so. A luglio verrà presentata la nuova stagione, che sarà inaugurata da Turandot (e dovrebbe includere anche i Pagliacci), ecco, osare qualcosa di meno rassicurante almeno in un titolo o due forse sarebbe un buon punto di partenza, a costo di prendersi i fischi di qualche loggionista ottuso.
La Carmen che ha chiuso la stagione ad esempio è la più classica delle Carmen di folclore, quelle che i critici musicali definiscono oleografiche (chissà perché tutte le Carmen sono “oleografiche”, vabbè), quindi ha costumi da Spagna che fu, belli ma un po’ di maniera, segue passo passo la drammaturgia, non rivela niente di nuovo ma è complessivamente curata, soprattutto nella recitazione dei singoli. Carlo Antonio De Lucia, che firma regia, scene e luci, sicuramente ci sa fare, però il suo è appunto uno spettacolo che guarda a modelli di ieri e tratta l’oggi con certo disinteresse. È un modo di fare teatro degnissimo e glorioso, sia chiaro, ma non è l’unico possibile.
Ketevan Kemoklidze è una protagonista notevolissima: canta e recita in punta di fioretto, soppesa parole e gesti, senza pose tragiche ma lavorando di lima. È pure bella e seducente, cosa che, al di fuori di retorica, per Carmen è fondamentale. Non auspicabile, fondamentale.
È un po’ meno credibile invece il Don José di Gaston Rivero, almeno scenicamente, anche perché sfigurato da un parrucchino spaventoso (fategli un piacere: bruciateglielo). Però nel canto convince eccome. Non è un mostro di eloquenza ma si sforza di smorzare e colorare, ed è per di più molto musicale. La voce è un po’ fibrosa qua e là, insomma non è di materiale pregiatissimo, ma le note ci sono tutte e anche il volume non manca.
Meravigliosa la Micaëla di Ruth Iniesta, che ormai è una solida realtà del panorama operistico. Lega, smorza e svetta con tutta la sicurezza che le conosciamo almeno da quando venne catapultata a sostituire la titolare nei Puritani inaugurali ed è anche attrice scaltra, che riesce a scongelare anche la più classica delle Micaële con la treccia bionda.
Così così Domenico Balzani, che al solito ha voce ampia e solida ma intonazione spesso rivedibile.
Molto positivo il contributo dei due contrabbandieri (Carlo Torriani e Motoharu Takei) e della coppia Rinako Hara/Federica Carnevale (rispettivamente Frasquita e Mercèdés). Clemente Antonio Daliotti è un Moralès affidabile, Fulvio Valenti uno Zuniga col vocione ma anche un po’ troppo da bagaglino.
La palla al piede di questa produzione è la bacchetta. Oleg Caetani al solito concerta con grande mestiere, tenendo saldi in pugno equilibri interni e di palcoscenico e cavando dall’Orchestra del Verdi il meglio quanto a qualità esecutiva, ma è mortalmente soporifero nella direzione vera e propria. Tempi molto dilatati, dinamiche ristrette tra il mezzo piano e il mezzo forte, tavolozza timbrica in seppia. Poi Caetani è il genere di direttore che marcia a testa bassa, cosa che non produce mai scollamenti o disastri ma spesso una mancanza di empatia col palco, di comune respiro, limite che emerge soprattutto nelle arie più liriche: La fleur e quella di Micaëla in sostanza.
Bene ma non al meglio della forma il coro.
Successo calorosissimo per tutti.
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