5 febbraio 2018

Die lustige Witwe alla Fenice

It is America, but not yet. Damiano Michieletto prende l'operetta, quella classica che più classica non si può, e la porta oltreoceano, nel mondo di Happy Days, del rock n' roll e delle pin-up anni ‘50, se non per quanto attiene all’ambientazione vera e propria, almeno nei riferimenti culturali. O forse sarebbe più corretto dire che la piega al “modello americano”, rimasticato da una prospettiva vagamente malinconica e provinciale. E il gioco funziona, perché sui valzerini, le polke e le mazurche della Vedova Allegra – anzi, Die lustige Witwe, nell’originale tedesco – pare che certo rockabilly, un po' di ballo acrobatico e persino il twist ci stiano benissimo. E ci stanno alla perfezione anche i lenti, con il Vilja-Lied che diventa un momento strappa-baci, di quelli da ballare cheek to cheek a luci soffuse nei festini da balera, per innamorati giovani e meno giovani.


Michieletto ci dice che l’operetta è viva e gode di ottima salute, basta solo trovarle la giusta dimensione e, magari, ripulirla dai sedimenti depositati dalla tradizione, dai luoghi comuni della comicità più ammuffita, da inserti abusivi e sghignazzi vari. Insomma basta avvicinarla a quello che è stato il suo epigono più fortunato, il musical.

Ci riesce? In gran parte sì, ma non del tutto. Il restyling operato dal regista è sicuramente deciso ma non radicale e qualche concessione al passato c’è ancora, cosa di per sé tutt’altro che biasimevole, non fosse che il contesto in cui si innesta parrebbe mirare in altra direzione. È il caso di alcuni espedienti comici marcati con mano troppo greve (dai bollori della signora matura sedotta da Danilo alle pose da fatalona della Glawari che tira per il cravattino i suoi spasimanti) ma anche del risalto che viene dato al personaggio di Njegus, una sorta di deus ex machina che tesse i fili della vicenda con il ventaglio di Valencienne usato a mo’ di bacchetta magica, escamotage furbetto che consente di sbrigare facilmente qualche snodo drammaturgico ma che, a conti fatti, non è freschissimo.

Sono dettagli che possono privare questo allestimento di qualche superlativo assoluto, ma certo non ne mettono in discussione la riuscita, anche perché il regista sa far muovere anche i sassi e in ogni momento, compresi quelli più affollati, ognuno ha ben presente cosa deve fare. E poi all’abilità del manovratore Michieletto va aggiunto il contributo sostanziale della coreografa Chiara Vecchi, che fa ballare (e come!) davvero tutti, cantanti compresi.

Se il contenuto è di pregevole fattura, non è da meno il suo involucro. Le scene di Paolo Fantin infatti, oltre ad essere come sempre curate nel minimo dettaglio, agevolano ogni istante dell’azione senza un cigolio e riescono ulteriormente esaltate dal disegno luci di Alessandro Carletti, che sa sfruttare al meglio gli accenti e le modulazioni della musica traducendoli in atmosfera. Meritano di essere citati anche i costumi di Carla Teti che sono bellissimi, e non è una novità.

La vicenda è posposta alla metà del secolo scorso. Il primo atto è ambientato nella hall della “Banca di Pontevedro” in cui lavora il protagonista Danilo Danilowitsch, un funzionario pigro e indolente che viene spinto tra le braccia di Hanna se non per amore del Vaterland, almeno di chi gli paga lo stipendio. In fondo qui si parla di soldi e tutto ci ruota, molto prosaicamente, intorno.

Quanto segue è calato in una sala da ballo che ricorda da vicino quelle delle feste di paese, con tanto di orchestrina rock (che suona benissimo!) cui si aggiungono a turno Hanna, proprio per il suo Lied, e Danilo, che schitarra un po’ con una Hollow Body rossa. Per l’ultima scena si ritorna in banca, questa volta nell’ufficio dello stesso Danilo, che, provato dai postumi della serata precedente, crolla addormentato sulla scrivania e sogna le grisette (trovata, questa sì, davvero geniale).


Sarebbe difficile immaginare per questo spettacolo una direzione che abbracci la tradizione esecutiva del genere e in tal senso Stefano Montanari va nella direzione giusta, mettendo da parte certa retorica viennese, e con essa il gusto per le sfumature, le mezzetinte e per quei sottili giochi di rubato che fanno tanto "operetta” (questi ultimi sostituiti da interventi sulla struttura orizzontale della musica assai più macroscopici, con la tendenza ad allungare o restringere l’agogica in modo ben marcato). Ancor più originali sono le indicazioni di articolazione, con l’accentazione di certe linee (i contrabbassi, onnipresenti, su tutti) marcata con secchezza e il sacrificio della rotondità “legata” del suono, soprattutto tra i violini. Tutto ciò, unito a una calibratura degli equilibri interni decisamente favorevole alle percussioni, crea un accompagnamento all’azione che regge più sulla pulsazione ritmica che sulla cantabilità melodica. Insomma quello ne esce è un Lehár senza tante smancerie ma nemmeno troppa poesia.

Che poi questa distanza dai modelli del passato sia da considerarsi estraneità stilistica o una precisa scelta di rottura è difficile a dirsi, certo quanto si ascolta non stride affatto con l'originalità del palco, anzi, ne asseconda la vivacità rockettara e scanzonata. Ciò detto, al netto delle scelte musicali, ci sono dei problemi oggettivi che riguardano soprattutto gli equilibri tra buca e palco, con la prima che si divora per tre quarti dello spettacolo il secondo, e di pulizia esecutiva, demerito da condividere con un'Orchestra della Fenice decisamente sottotono e meno precisa del solito.

Non è affatto sottotono invece il Coro, come sempre ben preparato da Claudio Marino Moretti, che oltre a cantare comme il faut si piega con tutta l’elasticità possibile alle necessità della regia.

Se lo spettacolo d’arte varia messo in piedi da Michieletto e company riesce, il merito va condiviso con un cast di artisti a tutto tondo. Nadja Mchantaf sa cantare, ballare e recitare. Forse niente di tutto ciò le riesce in modo straordinario, ma neppure men che discreto, e il risultato che porta a casa è notevolissimo: la voce è piccolina ma ben gestita, il canto non è quello della grande virtuosa eppure si mangia senza particolari difficoltà la scrittura della parte, il dinamismo sul palco incontenibile. Tutto ciò, unito alla bellezza della figura, contribuisce a dare vita a una Hanna Glawari di tutto rispetto.

Il Danilo di Christoph Pohl è uno scapolone giunto a quel passo della vita in cui si decide di tirare i remi in barca. La voce è di timbro tendenzialmente chiaro ma ben tornito ed è manovrata con una consapevolezza tecnica che gli consente di unire alla limpidezza della dizione un’emissione sempre morbida e controllata.

Konstantin Lee è un Camille de Rossillon dalla voce minuscola ma educatissima, Adriana Ferfecka una Valencienne il giusto civettuola e sicura nel canto, nonché dotata di uno strumento bello corposo.

Mirko Zeta è un Franz Hawlata irriconoscibile nelle frasi di sortita in cui stona, stecca e fa temere il peggio, salvo poi riscattarsi confermandosi grande attore, anche se molto vincolato a un gusto tradizionale. Il Niegus di Karl-Heinz Macek è una presenza pressoché costante sulla scena ma vede la sua parte effettiva ridotta a un moncherino.

Tutti i ruoli di contorno, siano più o meno in vista, sono all’altezza della situazione, il che vuol dire che tutti cantano, ballano e recitano ad alto livello, da Marcello Nardis e Simon Schnorr (St-Brioche e Cascada) a William Corrò (Kromow), Roberto Maietta (Bogdanowitsch), Martina Bortolotti (Sylviane), Zdislava Bočková (Olga), Nicola Ziccardi (Pritschitsch) e Daniela Baňasová (Praskovia). Deliziose anche le Grisette di Alessandra Calamassi (Lolo), Mariateresa Notarangelo (Dodo), Rossella Contu (Jou-Jou), Alessandra Gregori (Frou-Frou), Chiara Lucia Graziano (Clo-Clo), Krizia Picci (Margot).

Alla fine è un successone, catalizzato dalle uscite per gli applausi che Michieletto organizza sulle note dell’orchestrina. È banale ma la bravura di un regista si misura anche da questi dettagli.



Nessun commento:

Posta un commento