Sta ancora un po' largo lo Chopin del Primo concerto per pianoforte e orchestra a Jan Lisiecki, giovanissima e controversa stella della scuderia Deutsche Grammophon, protagonista, con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino guidata da Gaetano d'Espinosa, al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone. Lisiecki ha un approccio al piano solare ed estroverso, sa produrre un tocco brillante e rotondo che si espande con facilità ma, al momento, qualche limite nell'articolare e nella varietà di colori ed inflessioni lo si avverte. Certo quella che si ascolta è un'esecuzione piacevole, anche piuttosto ruffiana nei fraseggi, ma non di meno soffre di qualche cedimento nella narrazione e nello svolgimento.
L'impressione che si ha è che manchi un approfondimento ben meditato della musica chopiniana e che l'istinto e la musicalità del pianista, invero notevoli, giochino un ruolo predominante se non esclusivo nell'indirizzare l'interpretazione. La tecnica pianistica poi è notevole ma non eccezionale e qualche sbavatura qua e là ci scappa.
È lui tuttavia, Lisiecki, il protagonista e trionfatore del concerto e a lui sono andate le principali dimostrazioni d'affetto del pubblico mentre i momenti riservati alla sola orchestra sono passati quasi in secondo piano.
La prova dell'orchestra diretta da Gaetano d'Espinosa infatti si ferma poco più in là di una sostanziale correttezza, fatta di bel suono ed equilibri interni ben calibrati, ma non centra quella trasparenza cui si fatica a rinunciare nel repertorio di un compositore come Jean Sibelius. La Valse triste e soprattutto la Quinta Sinfonia in mi bemolle maggiore, op. 82 sono restituite con sonorità ricche ma vagamente opache, caratterizzate da una netta prevalenza degli archi sulle altre sezioni. Il colore è tendenzialmente scuro ma il suono difetta di limpidezza e si espande con una certa pesantezza. D'Espinosa sa accendere la musica con qualche accelerazione inattesa ma sono sprazzi che non rendono memorabile una lettura di buona routine.
Come accennato l'accoglienza del pubblico è stata calorosa nei confronti di direttore ed orchestra, trionfale per Lisiecki.
La folle giornata è un contenitore che raccoglie recensioni teatrali e discografiche di musica classica, sia cameristica che sinfonica, e opera lirica.
30 marzo 2016
9 marzo 2016
Eduardo Strausser dirige la Filarmonica della Fenice
Secondo appuntamento della stagione dell'Orchestra Filarmonica della Fenice, dopo la data veneziana di lunedì 29 febbraio, fa tappa al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone.
Sponsorizzato come “Concerto di pace” con la non originalissima etichetta-hashtag #makemusicnotwar, l'appuntamento verte intorno al lavoro, a tema, del compositore pordenonese Cristian Carrara: War Silence per pianoforte e orchestra. War Silence, ispirato alla Grande Guerra, più che ad una narrazione di fatti bellici mira a dipingere la reazione emotiva dell'individuo di fronte a queste tragedie collettive, intravedendo appunto nei “silenzi” un'oasi di speranza nel fracasso sanguinario dei conflitti. Quali siano le qualità ed il posto nella storia musicale di questa composizione sarà il tempo a stabilirlo ma senz'altro il servizio che la Filarmonica e il pianista Michelangelo Carbonara gli hanno reso è stato di prim'ordine.
Carbonara domina con sicurezza la materia, trovando una pregevole brillantezza di colori e articolando con vivacità.
Sul podio il giovane direttore brasiliano Eduardo Strausser si dimostra musicista sensibile e concertatore attento ma, allo stato attuale, ancora alla ricerca di una personalità di interprete ben definita, pregi e limiti che emergono soprattutto nei due momenti di repertorio aprono e chiudono il concerto.
La Suite da Pelléas et Mélisande, op. 80 di Gabriel Fauré convince ma non conquista. Si ammirano il nitore e la leggerezza delle sonorità, tenute costantemente su dinamiche soffuse, al pari dell'inappuntabile precisione orchestrale. Sembrano mancare tuttavia al maestro un po' di quel coraggio e di quella fantasia che trasformano la buona esecuzione in una lettura personale.
Questa timidezza interpretativa si avverte di meno nella Sinfonia n. 7 in re minore, op. 70 di Antonín Dvořák che riesce assai più tesa e compiuta. Strausser possiede un bel gesto che sa tradursi in fluidità di esecuzione: lo si percepisce al meglio nello Scherzo, ben vivacizzato da una sorprendente mobilità nell'agogica che scansa ogni metronomicità ed esalta la vena popolare che pulsa in questa musica. Più faticosa e zoppicante invece la narrazione nel secondo movimento, Poco adagio, che soffre di qualche calo di tensione.
Nel complesso gli equilibri e le dinamiche sono dosati con attenzione e le voci orchestrali calibrate con buonsenso ma non dispiacerebbe una maggiore attenzione ai colori che tendono all'uniformità.
Molto positiva – e non è una novità - la prova della Filarmonica che si conferma compagine all'altezza del grande repertorio sinfonico.
Calda l'accoglienza del pubblico a fine concerto.
Sponsorizzato come “Concerto di pace” con la non originalissima etichetta-hashtag #makemusicnotwar, l'appuntamento verte intorno al lavoro, a tema, del compositore pordenonese Cristian Carrara: War Silence per pianoforte e orchestra. War Silence, ispirato alla Grande Guerra, più che ad una narrazione di fatti bellici mira a dipingere la reazione emotiva dell'individuo di fronte a queste tragedie collettive, intravedendo appunto nei “silenzi” un'oasi di speranza nel fracasso sanguinario dei conflitti. Quali siano le qualità ed il posto nella storia musicale di questa composizione sarà il tempo a stabilirlo ma senz'altro il servizio che la Filarmonica e il pianista Michelangelo Carbonara gli hanno reso è stato di prim'ordine.
Carbonara domina con sicurezza la materia, trovando una pregevole brillantezza di colori e articolando con vivacità.
Sul podio il giovane direttore brasiliano Eduardo Strausser si dimostra musicista sensibile e concertatore attento ma, allo stato attuale, ancora alla ricerca di una personalità di interprete ben definita, pregi e limiti che emergono soprattutto nei due momenti di repertorio aprono e chiudono il concerto.
La Suite da Pelléas et Mélisande, op. 80 di Gabriel Fauré convince ma non conquista. Si ammirano il nitore e la leggerezza delle sonorità, tenute costantemente su dinamiche soffuse, al pari dell'inappuntabile precisione orchestrale. Sembrano mancare tuttavia al maestro un po' di quel coraggio e di quella fantasia che trasformano la buona esecuzione in una lettura personale.
Questa timidezza interpretativa si avverte di meno nella Sinfonia n. 7 in re minore, op. 70 di Antonín Dvořák che riesce assai più tesa e compiuta. Strausser possiede un bel gesto che sa tradursi in fluidità di esecuzione: lo si percepisce al meglio nello Scherzo, ben vivacizzato da una sorprendente mobilità nell'agogica che scansa ogni metronomicità ed esalta la vena popolare che pulsa in questa musica. Più faticosa e zoppicante invece la narrazione nel secondo movimento, Poco adagio, che soffre di qualche calo di tensione.
Nel complesso gli equilibri e le dinamiche sono dosati con attenzione e le voci orchestrali calibrate con buonsenso ma non dispiacerebbe una maggiore attenzione ai colori che tendono all'uniformità.
Molto positiva – e non è una novità - la prova della Filarmonica che si conferma compagine all'altezza del grande repertorio sinfonico.
Calda l'accoglienza del pubblico a fine concerto.
7 marzo 2016
Luisa Thriller
Non passerà alla storia la produzione di Luisa Miller in scena al Teatro Verdi di Trieste. Le poche consolazioni, in un quadro generale piuttosto sbiadito, arrivano dalla protagonista e dai complessi di casa. L'Orchestra del Verdi innanzitutto si conferma ad alti livelli anche sotto la guida di Myron Michailidis, non solo per l'impeccabile precisione di esecuzione ma soprattutto perché pare ormai aver maturato a tutti gli effetti un'identità timbrica ed un'omogeneità di suono notevolissime.
Per il resto il direttore va poco oltre alla sostanziale correttezza, compilando una concertazione attenta agli equilibri interni ma spesso soverchiante sul palcoscenico.
Saioa Hernàndez, come accennato, è una convincente Luisa, capace di superare con disinvoltura gli scogli della parte. La voce è di bel timbro scuro, non difetta di volume e mantiene una pregevole omogeneità di colore in ogni registro. Certo alcuni passaggi di agilità sono affrontati con prudenza e gli estremi acuti soffrono di qualche tensione ma nel complesso la prova del soprano è all'altezza della situazione.
Problematica invece la performance di Gustavo Porta, Rodolfo. L'emissione ingolata e l'aridità del timbro impediscono un'adeguata valorizzazione della musica e del personaggio e compromettono anche la riuscita del canto stesso: l'intonazione è spesso imprecisa, gli acuti forzati e il fraseggio monotono.
Filippo Polinelli, Miller, subentra in sostituzione del previsto Ilya Silchukov. Il baritono, dopo un primo atto molto faticoso, si è reso protagonista di una prova in crescendo che è culminata in un apprezzabile duetto finale. Non mancano le qualità vocali e tecniche a Polinelli ma al momento il suo strumento non pare sufficientemente maturo per reggere la scrittura verdiana senza cedimenti.
Andrea Comelli è ormai una presenza fissa sul palco del teatro triestino ma spiace ravvisare che, come Walter, non conferma le impressioni positive sinora restituite. I panni del Conte sembrano calzargli decisamente larghi, non tanto in termini di spessore vocale quanto nella gestione dei fiati e del legato. Dimenticabile l'esecuzione dell'aria del primo atto mentre va meglio il duetto con Wurm.
Olesya Petrova viene a capo senza patemi della parte di Federica, sfoggiando una vocalità ampia e di bel timbro. Positiva la prova di In-Sung Sim, basso dall'emissione sana ma soprattutto interprete consapevole che riesce a dar vita a un personaggio coerente e compiuto senza scadere in eccessi caricaturali.
Corretta Yumeji Matsufuji (Laura) mentre risulta più opaco Motoharu Takei nei panni del contadino.
Il coro preparato da Fulvio Fogliazza si comporta bene come sempre.
Purtroppo la produzione risulta pesantemente azzoppata dalla parte scenica firmata da Denis Krief il quale crea uno spettacolo che non è né bello né brutto ma, peggio, totalmente inerte. In un contesto registico assolutamente tradizionale per quanto riguarda il lavoro sui cantanti e sulla drammaturgia, l'asettica eleganza delle scene anziché aggiungere idee o spunti finisce per annacquare ulteriormente la narrazione. Manca una caratterizzazione ben definita dell'opera sia per quanto riguarda la risoluzione del linguaggio teatrale verdiano (arie, cabalette, duetti e concertati vengono risolti con il solito, trapassato, campionario di pose da melodramma d'antan), sia nella definizione dei caratteri che risultano convenzionali quando non appena abbozzati.
Lasciano poi esterrefatti alcune soluzioni che superano i limiti del grottesco, su tutte i movimenti coreografici chiesti a coro e solisti a inizio di primo atto. A firma di Krief anche i costumi e il piattissimo disegno luci.
Tiepida e sbrigativa l'accoglienza del pubblico a fine recita con applausi cortesi per tutti e qualche segno di dissenso per il tenore.
Per il resto il direttore va poco oltre alla sostanziale correttezza, compilando una concertazione attenta agli equilibri interni ma spesso soverchiante sul palcoscenico.
Saioa Hernàndez, come accennato, è una convincente Luisa, capace di superare con disinvoltura gli scogli della parte. La voce è di bel timbro scuro, non difetta di volume e mantiene una pregevole omogeneità di colore in ogni registro. Certo alcuni passaggi di agilità sono affrontati con prudenza e gli estremi acuti soffrono di qualche tensione ma nel complesso la prova del soprano è all'altezza della situazione.
Problematica invece la performance di Gustavo Porta, Rodolfo. L'emissione ingolata e l'aridità del timbro impediscono un'adeguata valorizzazione della musica e del personaggio e compromettono anche la riuscita del canto stesso: l'intonazione è spesso imprecisa, gli acuti forzati e il fraseggio monotono.
Filippo Polinelli, Miller, subentra in sostituzione del previsto Ilya Silchukov. Il baritono, dopo un primo atto molto faticoso, si è reso protagonista di una prova in crescendo che è culminata in un apprezzabile duetto finale. Non mancano le qualità vocali e tecniche a Polinelli ma al momento il suo strumento non pare sufficientemente maturo per reggere la scrittura verdiana senza cedimenti.
Andrea Comelli è ormai una presenza fissa sul palco del teatro triestino ma spiace ravvisare che, come Walter, non conferma le impressioni positive sinora restituite. I panni del Conte sembrano calzargli decisamente larghi, non tanto in termini di spessore vocale quanto nella gestione dei fiati e del legato. Dimenticabile l'esecuzione dell'aria del primo atto mentre va meglio il duetto con Wurm.
Olesya Petrova viene a capo senza patemi della parte di Federica, sfoggiando una vocalità ampia e di bel timbro. Positiva la prova di In-Sung Sim, basso dall'emissione sana ma soprattutto interprete consapevole che riesce a dar vita a un personaggio coerente e compiuto senza scadere in eccessi caricaturali.
Corretta Yumeji Matsufuji (Laura) mentre risulta più opaco Motoharu Takei nei panni del contadino.
Il coro preparato da Fulvio Fogliazza si comporta bene come sempre.
Purtroppo la produzione risulta pesantemente azzoppata dalla parte scenica firmata da Denis Krief il quale crea uno spettacolo che non è né bello né brutto ma, peggio, totalmente inerte. In un contesto registico assolutamente tradizionale per quanto riguarda il lavoro sui cantanti e sulla drammaturgia, l'asettica eleganza delle scene anziché aggiungere idee o spunti finisce per annacquare ulteriormente la narrazione. Manca una caratterizzazione ben definita dell'opera sia per quanto riguarda la risoluzione del linguaggio teatrale verdiano (arie, cabalette, duetti e concertati vengono risolti con il solito, trapassato, campionario di pose da melodramma d'antan), sia nella definizione dei caratteri che risultano convenzionali quando non appena abbozzati.
Lasciano poi esterrefatti alcune soluzioni che superano i limiti del grottesco, su tutte i movimenti coreografici chiesti a coro e solisti a inizio di primo atto. A firma di Krief anche i costumi e il piattissimo disegno luci.
Tiepida e sbrigativa l'accoglienza del pubblico a fine recita con applausi cortesi per tutti e qualche segno di dissenso per il tenore.
2 marzo 2016
L’Ottava di Bruckner secondo Inbal al Teatro La Fenice
Più che a ieri guarda a ier l’altro il Bruckner di Eliahu Inbal. La cosa non sorprende né, in fin dei conti, ridimensiona il giudizio, dal momento che il passato di cui si fa alfiere l’ottantenne maestro israeliano rappresenta una parte fondamentale della storia dell’interpretazione bruckneriana. Tuttavia la sua Sinfonia n.8 in do minore – lo scorso fine settimana al Teatro La Fenice – non scansa, qua e là, l’impressione anacronismo che un po’ commuove e un po’ infastidisce.
Perché c’è tanto suono, spesso troppo, per lo più uniforme nelle tinte e nelle intenzioni. È un Bruckner preso estremamente sul serio che vive di certezze granitiche. Imperioso e magniloquente, denso come magma ma cupo. Tutto è ingigantito e sottolineato con l’evidenziatore: la tragicità espressa con violenza, i tratti volgari dello Scherzo marcati con vigore, l’Adagio poi viene restituito con una corposità di suono impressionante ma quasi stucchevole, con gli archi chiamati ad esasperare il vibrato.
Non che il quadro risulti piatto o sbiadito, tutt’altro: le dinamiche sono variegate e meditate, i toni carichi e travolgenti. L’orchestra è costantemente sollecitata a impastare i timbri nella ricerca di un amalgama vischioso, il che comporta un ovvio sacrificio della trasparenza in favore di una compattezza di suono sbalorditiva ma tuttavia incostante, soprattutto nei fortissimi che non escono sempre equilibrati e che, nel finale, tendono a sfuggire al controllo del podio.
Al di là delle considerazioni sull’impostazione generale, non si può dire che il disegno non sia definito e perseguito con perizia. Ciò che ne esce è chiarissimo e dimostra la grande familiarità di Inbal con il repertorio bruckneriano e con questo lavoro in particolare, proposto nella versione del 1887. La sua Ottava emerge sì come un monumento imponente, uno sforzo titanico dalla drammaticità esasperata, ma non di meno evidenzia un’autorità musicale fuori dall’ordinario, non tanto nella fantasia quanto nella capacità di dare coerenza e tensione alla narrazione. Fatta la tara delle perplessità e delle riserve sul gusto e di una certa prevedibilità del disegno, questa Ottava non manca di mestiere e consapevolezza. Le fa difetto, forse, un po’ di poesia.
Merita una lode l’Orchestra del Teatro La Fenice che si comporta molto bene reggendo l’intera prova senza sbavature e assecondando, nei limiti del possibile, le continue sollecitazioni di Inbal a inspessire le sonorità.
Applausi entusiastici ma frettolosi a fine concerto.