È sempre molto triste vedere un teatro deserto, soprattutto quando il palcoscenico ospita uno spettacolo degno di ben altra considerazione. L'Orlando Paladino di Joseph Haydn andato in scena al Teatro Verdi di Gorizia il 5 aprile scorso, in un clima spettrale, avrebbe meritato l'attenzione e il plauso di un pubblico molto più consistente delle poche decine di appassionati che hanno deciso di trascorrere il sabato sera all'opera.
Già ad un primo colpo d'occhio si intuisce che il budget della produzione è esiguo: il palcoscenico accoglie nella metà sinistra l'orchestra mentre il “dramma eroicomico”prende vita accanto. La scenografia è esigua, costituita da sole cassette di legno colorate che verranno continuamente spostate, accatastate, impilate, sormontate, persino indossate dagli artisti sulla scena, così da costruire un ambiente in costante mutamento. I cantanti, quando non direttamente coinvolti dall'azione, rimangono sul palco in qualità di mimi, diventando all'occorrenza creature della foresta, serpenti o destrieri da cavalcare.
Gli abiti sono semplicissimi, stereotipati come nei giochi dei bambini, la recitazione spigliata e curatissima, non c'è un attimo di tregua o immobilismo, non c'è noia. Alcune trovate sono leggermente forzate, talvolta l'effetto comico è cercato ad ogni costo anche quando non sarebbe necessario, tuttavia è davvero poca cosa alla luce del risultato complessivo e della difficoltà di risolvere con coerenza e senza cedimenti di tensione un'opera dalla trama tanto scombinata.
Merito del regista Vincent van den Elshout, capace di infondere vivacità e freschezza di idee allo spettacolo, ma anche dei solisti, ammirevoli nell'unire ad una preparazione musicale all'altezza della situazione, doti sceniche tutt'altro che comuni.
Rafael Vazquez Sanchis, tenore, era un Orlando convincente per vocalità e presenza, molto ironico nel giocare con un fisico dall'aspetto tutt'altro che eroico. Piaceva Dorothée Lorthiois, Angelica dalla bellezza quasi adolescenziale, che, pur in possesso di voce dal timbro peculiare, sapeva svettare con luminosità nel registro acuto.
Cozmin Sime offriva la propria voce, di bel colore e ben emessa, ad un Rodomonte privato di ogni dimensione eroica o regale. Il Medoro di Christo Kechris aveva voce anonima ed ottime intenzioni purtroppo non sempre sostenute da un controllo tecnico all'altezza. Sophie Goldrick riscontrava non poche difficoltà nel risolvere una parte, quella di Alcina, troppo grave per la sua vocalità. Molto buona la prova di Olga Siemienczuk, Eurilla di timbro gradevole e solida musicalità. Alberto Sousa (Pasquale/Licone), cantante dalla tecnica sicuramente agguerrita, sapeva padroneggiare l'impervia estensione richiesta dal doppio ruolo senza cedimenti. Impressionava Daniel Borowski, basso dallo strumento importante, impegnato con ottimi risultati nella pur piccola parte di Caronte.
L'Orchestra Purpur, diretta da Michael Fendre, a dispetto di alcune ruvidezze timbriche ed imprecisioni imputabili alla giovanissima età dei musicisti, esibiva ottima coesione e compattezza. Il direttore sapeva infondere buon ritmo alla narrazione puntando su una concertazione vigorosa, bruciante nella scansione ritmica e molto curata nelle sfumature dinamiche.
A fine esibizione, in un clima quasi surreale, lo sparuto pubblico salutava la compagnia con calorosi (e meritatissimi) applausi.
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