9 luglio 2011

La Bohème di Karajan, breve recensione di un riascolto deludente

Mimì (Mirella Freni);
Rodolfo (Luciano Pavarotti);
Marcello (Rolando Panerai);
Musetta (Elizabeth Harwood);
Colline (Nicolai Ghiaurov);
Schaunard (Gianni Maffeo);
Benoit/Alcindoro (Michel Sénéchal);

Schöneberger Sängerknabeèn
Chor der Deutschen Oper Berlin

Berliner Philharmoniker - Herbert von Karajan

Nello sterminato panorama delle incisioni operistiche vi sono alcuni titoli che hanno fatto storia e che restano nella memoria quali misure di paragone per ogni altra esecuzione precedente o successiva. È il caso ad esempio de La Bohème portata in sala di registrazione da Herbert von Karajan nei primi anni settanta con un cast straordinario a coronamento di un percorso intrapreso dal maestro austriaco una decina di anni prima quando salì sul podio scaligero per lo storico allestimento firmato Zeffirelli. Ebbene, può capitare che a un riascolto tali miti escano ridimensionati o risultino quantomeno invecchiati.

Analizzando l'incisione, appaiono chiare le ragioni di tale fama sia per la straordinaria padronanza con cui ogni singolo membro del cast affronta la partitura pucciniana che per l'indiscutibile magistero tecnico del direttore austriaco, che plasma la musica pucciniana come non sarebbe riuscito più a nessuno. L'orchestra dipinge un'atmosfera mistica, Karajan estrae dai Berliner una ricchezza di colori e dinamiche all'epoca sicuramente inedita ed ancor oggi sorprendente, il canto è sostenuto al meglio con suono di morbidezza e bellezza insuperabili.

Certo oggi, dopo essere passati attraverso la vibrante lettura di Kleiber, la malinconia di Bernstein o l'interpretazione tesa e asciutta di Pappano, la cura maniacale per la bellezza del canto e del suono orchestrale di Karajan sembrano sostenere un sentimetalismo inattuale. Ciononostante va reso merito al direttore di riuscire a scongiurare il rischio, sempre dietro l'angolo, di scivolare nell'autocompiacimento o nel calligrafismo: la lettura di Karajan è coerente e perfettamente sostenuta, non vi sono cedimenti né alla tensione teatrale né musicali, semplicemente a quasi quarant'anni di distanza l'impostazione risulta distante nella sensibilità.

In merito alla prova dei cantanti possiamo fare due tipi di considerazione. Potremmo fermarci alla mera analisi dell'esecuzione vocale e ci sarebbe ben poco da dire, Mirella Freni canta splendidamente, con voce lirica piena, bella, in grado di spiccare nel canto spigato come di piegarsi in sublimi mezzevoci, mostrando una perfetta comunione d'intenti con il direttore. Pavarotti, che pure aveva una gran voce, cristallina e giovanile, rimane un passo indietro risultando più avaro di colori, a favore di un canto estroverso, sicuramente aiutato da un mezzo vocale ineguagliato per squillo e facilità. Restando in tema di pregio vocale e consapevolezza tecnica il Marcello di Panerai e la Musetta di Elisabeth Harwood risultano perfettamente calati in un simile contesto, così come eccellenti sono il Colline di Ghiaurov, lo Schaunard di Gianni Maffeo e quasi tutti i comprimari.

Ad ogni modo, se sotto il profilo vocale non si può evitare di entusiasmarsi, non altrettanto convincente è l'impianto interpretativo, la caratterizzazione dei personaggi che risulta almeno per quanto riguarda i due protagonisti, piuttosto datata e superficiale. Al Rodolfo di Pavarotti manca un reale approfondimento drammatico, il fraseggio è, come spesso accadeva, banale ed indifferente, la musicalità imperfetta. Mirella Freni, che come detto canta benissimo, è una Mimì se non generica, insipida, le fa completamente difetto quella sensualità travestita d'innocenza che caratterizza il personaggio, come avevano ben capito prima di lei Maria Callas e in modo diverso Victoria De Los Angeles. Panerai è invece un Marcello convincente pur non evitando qualche eccesso di estroversione mentre è davvero deliziosa la Musetta dell'inapputabile Harwood.
Michel Sénéchal è Alcindoro e Benoit con tutti i cachinni, le vocine e i versetti che all'epoca (o meglio nei decenni precedenti) piacevano molto e che pure oggi non è raro sentire nei teatri italiani. Peccato.

La registrazione infine è di ottima qualità, da standard Decca, pur con qualche abuso di effetti stereofonici.

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