30 ottobre 2024

Ariadne auf Naxos all'Olimpico di Vicenza

   Il Teatro Olimpico di Vicenza, sede ormai da diversi anni del Vicenza Opera Festival, offre un’esperienza di fruizione del melodramma unica per almeno due ragioni. La prima è la dimensione e l'organizzazione degli spazi, con le gradinate a circondare buca e palco, che sono un tutt’uno, cosa che accorcia le distanze e rende più intimo il rapporto con gli artisti. La seconda è dettata dall’assenza di vere e proprie quinte e di tecnologie sceniche avanzate, che costringe le produzioni a deviare verso forme per così dire rudimentali di messa in scena, come a riallacciare il filo con l’origine stessa del teatro.



   Quando questo lavoro di sottrazione e apparente semplificazione, che in realtà semplificazione non è, funziona con tutti i crismi, si assiste a qualcosa di prodigioso, com’è nel caso dell Ariadne auf Naxos di quest’edizione. Un’Ariadne ibrida nella costruzione editoriale, che va in scena senza il Prologo, sostituito da una suite delle musiche di scena de Le bourgeois gentilhomme ad accompagnare una deliziosa pantomima cui partecipano, oltre ai cantanti, anche i musicisti della Budapest Festival Orchestra, che si dividono la scena recitando, danzando e, incidentalmente, continuando a suonare divinamente.

   Al di là dell’eccentricità delle scelte, lo spettacolo funziona perché Iván Fischer e la co-regista Chiara D’Anna rispolverano il carattere genuino della commedia dell’arte senza rinunciare al suo lato grottesco e quasi naive, ma cavalcandolo, aiutati dall’armamentario scenico leggerissimo e cartoonesco di Andrea Tocchio, che riesce a fare tanto con poco, e ai bei costumi di Anna Biagiotti. Ne sortisce un meccanismo teatrale di inesausto dinamismo, in cui i cantanti-attori e un paio di mimi, ma anche il direttore, animano un palcoscenico su cui c’è quasi nulla, restituendo quella mutevolezza di registri propria dell'opera, in cui il comico cede il passo ora al patetico, ora al grottesco, ora a un  erotismo schietto.

   Dal punto di vista squisitamente musicale le cose vanno ancor meglio e il merito è innanzitutto di un’orchestra al solito prodigiosa per duttilità e calore, che suona con la delicatezza di un quartetto e la possanza di un organico mahleriano. Il tutto pilotato dall’eleganza antiretorica e dall’ironia di Fischer, un direttore che si pone sempre come intermediario tra la pagina e il suono e che mai dà l'impressione di voler attirare su di sé i riflettori anteponendo la propria indiscutibile personalità alle ragioni della musica.

   Emily Magee, nei panni della protagonista, firma una prova in crescendo sotto il piano vocale, pur con qualche tensione negli acuti, ma è solidissima nella caratterizzazione di una Ariadne divorata da uno straziante dolore interiore.

   Andrew Staples, Bacco, non ha un timbro baciato dalla natura ma si beve con irridente facilità una parte breve ma infida come poche. Come accade spesso, Zerbinetta è la trionfatrice della serata e in questo caso non sorprende: Anna-Lena Elbert non è un usignolo che recita ma un’attrice che canta da usignolo, con voce sì voce piccolina ma omogenea e comoda in ogni registro.

   È niente meno che eccellente il contributo delle quattro maschere: Gurgen Baveyan è un Arlecchino esuberante, Stuart Patterson disegna Scaramuccio da gran caratterista, Daniel Noyola (Truffaldino) lascia scorgere una voce di basso di prima qualità e Juan de Dios Mateos è un Brighella di sorprendente squillo.

   Sono altresì ottimamente distribuite per caratteristiche timbrico-vocali e per purezza della linea di canto le tre ninfe: Samantha Gaul (Naiade), Olivia Vermeulen (Driade) e Mirella Hagen (Eco).

   Trionfo a fine recita con battimani ritmati da parte del pubblico che si sono conclusi solo quando Fischer ha congedato orchestra e artisti.

10 giugno 2024

Kirill Petrenko dirige la Gustav Mahler Jugendorchester

   Pochi autori riescono a mettere a nudo l’abilità esplicativa di un direttore d’orchestra, intesa come capacità di penetrare nella struttura compositiva per svelarla all’ascoltatore, al pari di Anton Bruckner. Eppure, per tradizione o semplicemente per abitudine, spesso la tentazione di lucidare i blocchi marmorei che costituiscono gli elementi costruttivi delle sue maestose cattedrali sonore prevale sullo sforzo di enuclearli ad uno ad uno per illustrare come si incastrino nel generare un'architettura complessa. Sottrarsi alla sfida dell’analiticità, preferendo la strada della compattezza e dell’omogeneità, ha l’ovvia conseguenza di irrigidire il gioco a intreccio tra le cellule compositive che formano il corpo di quell’organismo pantagruelico che è una sinfonia bruckneriana, congelando i mille spunti musicali in un monolite tanto imponente quanto statico.

foto Luca d'Agostino

   Che Kirill Petrenko, al debutto sul podio della Gustav Mahler Jugendorchester in un repertorio appena sfiorato in passato, potesse condurre a un approdo rivelatorio era ben più che un auspicio, tuttavia la prova del palco al Teatro Verdi di Pordenone, nel primo concerto della tournée primaverile, ha spalancato delle prospettive sbalorditive sulla Quinta di Bruckner.

   Quello in cui conduce Petrenko è un viaggio nella fantasia tortuosa di Anton Bruckner e nel suo procedimento compositivo. Seguendolo si è travolti dal continuo fiorire di idee che - come sono solite fare le idee - ora brulicano, ora si affastellano confusamente, ora si deformano in qualcosa di inafferrabile o mostruoso, ora si sgonfiano per svanire nel silenzio.

   Se Petrenko riesce ad animare lo sviluppo del discorso musicale sin dal pianissimo ectoplasmatico che apre il primo movimento è perché lavora su di ogni inciso conferendogli un carattere proprio e una determinazione all’interno della struttura generale. Così il corale degli archi nell’Adagio affiora inizialmente come un’onda di reminiscenze per poi ripresentarsi talmente denso da trasmettere un senso di dolore palpabile e trasfigurare ancora in altra forma, come affievolito. Tratta analogamente gli echi di Ländler nello Scherzo - attaccato con un virtuosismo spericolato - che ad ogni ritorno hanno un tono differente: triviale prima, malinconico poi, quasi frivolo e galante infine. Una dialettica che va ulteriormente evolvendo nella fuga del Finale, azzannata con violenza brutale per farsi via via più flessibile e sciolta, in un progressivo accumulare tensione che esplode nell’ineluttabile tripudio.

   In questa narrazione dalla visionarietà “fantastique”, ogni frammento musicale guizza dall’orchestra inatteso e imprevedibile come può fare solo qualcosa di autenticamente vitale e, se tale appare, è perché ogni scelta di articolazione, ogni transizione, ogni scarto ha in sé qualcosa di sorprendente. Sorprendente non per velleità narcisistiche, ma perché incanalato in una visione tanto immaginifica quanto coerente dell’opera di un autore che mai è parso tanto emancipato da quell’ampollosità monumentale di tradizione che, in fondo, benché abbia assoluta dignità nella storia interpretativa specifica, ne imbolsisce la vena creativa.

   Se il meccanismo funziona, c’è molto merito della Gustav Mahler Jugendorchester che non è solo - come si registra anno dopo anno - un’ottima orchestra, con un’identità timbrico-attitudinale che resiste alle continue rigenerazioni d’organico, ma che è altresì duttile e perfettamente responsiva al gesto del direttore, cui si dà e affida con una generosità e una concentrazione commoventi. Se già la prova al debutto è prossima all’impeccabilità per compattezza, fluidità e bilanciamento degli equilibri, al netto di qualche piccola increspatura incidentale, non si può che pronosticare un’ulteriore crescita di confidenza nel corso delle cinque repliche in programma tra Italia (Ravenna e Roma) e Spagna.

   Successo trionfale sancito dal pubblico di un Verdi tutto esaurito con dieci minuti di ovazioni ininterrotte. L’appuntamento a Pordenone con la GMJO è rimandato ad agosto con la residenza estiva e con due repliche del tour che seguirà affidato a Ingo Metzmacher (2 e 4 settembre).