12 dicembre 2013

Il Messiah di Händel diretto da Ton Koopman

Il nome di Ton Koopman è indissolubilmente legato alla rinascita del barocco avvenuta negli ultimi decenni del secolo scorso, vero e proprio pioniere nella riscoperta del repertorio e soprattutto nella ricerca di una prassi esecutiva filologica. Non sorprende dunque che il Teatro Verdi di Pordenone proponesse il Messiah per soli, coro e orchestra di Händel , diretto dal maestro olandese alla guida della sua Amsterdam Baroque Orchestra, tra gli appuntamenti di spicco della stagione di musica.


Figura di intellettuale, saggista e studioso ancor prima che di musicista, già al solo ascolto si intuisce quanto Koopman privilegi su tutto l'analisi strutturale dell'opera: c'è, nell'apollinea perfezione e nell'approfondimento musicologico che Koopman fa della partitura una certa meccanicità, questo è innegabile, si direbbe quasi una contemplazione statica del genio compositivo che tende a mettere in secondo piano la componente emotiva e teatrale della musica. I minimi difetti vengono tuttavia ampiamente bilanciati dall'ammirevole ricchezza di sfumature e dalla profondità di analisi del lavoro, resa possibile da un'orchestra eccellente per nitore di suono, trasparenza e pulizia. L'Handel di Koopman è un prodigio di equilibri, ogni voce strumentale è posta sotto la lente di ingrandimento, ad esaltare la complessità contrappuntistica della scrittura orchestrale, pur senza perdere il senso generale dell'architettura dell'opera (e qui si apprezza la lunga consuetudine del maestro con il capolavoro handeliano). Per il gusto odierno è forse mancata una più decisa sottolineatura della forza drammatica di certe pagine ed una cura del fraseggio che emancipasse l'esecuzione dallo stato di sola realizzazione musicale, benché inappuntabile, conferendogli una compiutezza drammaturgica che è mancata, soprattutto nella distinzione dei caratteri affatto diversi delle tre parti che compongono il Messiah.

Vero protagonista dell'oratorio handeliano è il coro, nel caso specifico l'Amsterdam Baroque Choir, diretto da Frank Markowitsch. Non possiamo che lodare il cimento della compagine olandese, sia per la pertinenza stilistica, sia per la realizzazione tecnica. Colpiva, al di là dell'impeccabile esecuzione musicale, la chiarezza di dizione, ottenuta grazie ad un'emissione scoperta, meno rotonda e strumentale rispetto a un coro che frequenti repertori posteriori, ma non per questo meno pregevole.
Positive nel complesso le prove dei quattro solisti. Piaceva molto, a dispetto di una voce piccina, il controtenore Maarten Engeltjes, per colore, morbidezza d'emissione e musicalità. Corretto il tenore Jörg Dürmüller, cantante di timbro ordinario ma di buon gusto. Il basso Klaus Mertens esibiva una vocalità chiarissima, dal timbro quasi tenorile, ma omogenea e sonora, ottima pronuncia ma stile ed agilità perfettibili. Non impeccabile il soprano Johannette Zomer che palesava difficoltà nel registro acuto, fisso e faticoso nei passaggi di agilità.
A fine concerto ottima accoglienza del pubblico pordenonese con punte di entusiasmo per il maestro Koopman.

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