Con la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi il teatro triestino termina gli appuntamenti in cartellone per la stagione di musica sinfonica, in attesa di inaugurare a gennaio quella di opera e balletto con Un Ballo in Maschera, altro capolavoro del bussetano.
Nota è la genesi del lavoro verdiano, dedicato alla memoria di Alessandro Manzoni, figura verso cui il compositore ha sempre nutrito un’ammirazione profonda e sincera, come testimoniano, ancor prima del Requiem stesso, diversi passaggi biografici facilmente rintracciabili nell’epistolario. Centrare la natura del lavoro, per stile e sensibilità affatto unico nel panorama della musica sacra, rimane ad oggi una sfida affascinante per l’interprete che vi si pone di fronte. Il dilemma di individuare quale sia il carattere della messa, quale la sua anima o il suo messaggio e in quale posizione collocarlo rispetto alla produzione operistica verdiana (che inevitabilmente si intravede tra le pagine del requiem) è affare tutt’altro che risolto ed è compito del direttore scegliere una direzione interpretativa, in base alla propria sensibilità e formazione.
Gianluigi Gelmetti, a capo dell’orchestra del Teatro Verdi, opta per una lettura di buon passo, privilegiando l’aspetto teatrale ed epidermico della musica. Il maestro dimostra di saper reggere la tensione senza cedimenti, con mestiere e buon senso, senza ricercare calligrafismi od approfondimenti eccessivi. Gelmetti sceglie tempi sostenuti, così da andare incontro alle esigenze dei solisti e dell’orchestra, meno brillante che in altre occasioni. Piace la compattezza di suono e la precisione: la pulizia degli attacchi e la varietà di dinamiche evidenziano il buon lavoro di concertazione, mentre lascia qualche perplessità la cura del colore e della qualità di suono (soprattutto gli archi non sono in forma smagliante) e piacerebbe una maggiore trasparenza. Al solito convincente il coro preparato da Paolo Vero.
Luci ed ombre nelle prove dei quattro solisti. Convince Laura Polverelli per stile e musicalità; la voce, benché di modesto volume, suona uniforme e ben emessa, ottimi il gusto nel porgere ed il fraseggio.
Il tenore Gianluca Terranova, forse in non perfette condizioni vocali, mostra diverse opacità e spoggiature nella mezzavoce mentre il registro acuto pare meno brillante che in altre occasioni. Lasciano buone impressioni tuttavia i tentativi di alleggerire il canto e di lavorare sulle dinamiche.
Enrico Iori fornisce una prova positiva: la voce, di buon volume e colore, risulta omogenea e ben controllata; il basso sceglie di leggere il capolavoro verdiano accentuando la sua dimensione teatrale – impostazione che taluni potrebbero trovare fuori stile – lavorando sulla parola e sull’accento.
Rachele Stanisci, soprano, a dispetto di una voce poco affascinante per qualità intrinseche, palesa buone intenzioni (che non sempre trovavano realizzazione) cercando un canto sfumato ed espressivo, soprattutto nel libera me. Purtroppo la voce evidenzia non poche asperità e forzature nel registro acuto, soprattutto nella prima parte di concerto.
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