Sbarca a Venezia la Carmen di Calixto Bieito. Uno spettacolo forte, crudo, che mette da parte l’oleografia delle Carmen in costume spogliando palco e personaggi di ogni orpello per restituire all’opera tutta la sua forza drammatica e teatrale. Carmen è una storia d’amore e di morte, la storia di una donna che sceglie di rivendicare il proprio diritto di essere libera, fino alle estreme conseguenze.
La scenografia di Alfons Flores è scarna, non c’è spazio per il folclore, la presenza del popolo ridotta all’osso, la corrida vagamente accennata dalla sola sagoma di un toro (quello del brandy Osborne), zingari e contrabbandieri si muovono a bordo di vecchie Mercedes scassate. La Spagna è esplicitamente richiamata dalla bandiera che sventola su un pennone, uno dei pochissimi elementi scenografici. Una Spagna polverosa ed assolata in cui si scontrano ed intrecciano due mondi opposti ma profondamente simili. Il mondo militare, corrotto, fatto di soprusi e nonnismo, in cui non è difficile scorgere il fantasma della dittatura franchista e quello brutale dei contrabbandieri. Due fronti della maschilità più rozza e volgare caratterizzati da una virilità esibita e deviata, arrogante e violenta. Tra questi due universi le donne a fare da collante, o meglio da merce di scambio, le donne abusate con la complicità dell’alcol, prostitute per necessità piuttosto che per scelta.
L’azione è spostata in epoca contemporanea, una contemporaneità degradata, fatta di miserie e violenza. Il lavoro del regista sui personaggi in scena è curato nel minimo dettaglio fino all’ultima delle comparse, il ritmo indiavolato, nevrotico, talora ipercinetico salvo poi trovare pace in momenti di assoluta poesia (come il preludio al terzo atto) o di drammatica intensità.
Béatrice Uria Monzon è Carmen fin nel midollo. Una Carmen dalla personalità travolgente, profondamente sensuale senza volerlo essere a tutti i costi, capace di unire all’erotismo più esplicito la verità del sentimento, bravissima ad evitare la femminilità posticcia, quasi caricaturale, che spesso si è abituati ad accostare al personaggio. L’attrice è carismatica ed intensa. La voce, di grande presenza, gestita con sapienza in un canto vario e incisivo, solo in zona acuta si avvertono alcuni problemi d’intonazione. Peccati veniali, pienamente compensati dalla consapevolezza interpretativa e musicale.
Discorso opposto per il Don Josè di Stefano Secco, all’esordio nella parte. Il tenore canta bene, la voce pur non possedendo lo spessore drammatico che alcuni passaggi richiederebbero è sonora e fresca, sicura su tutta la gamma. Ciò che manca è un maggiore approfondimento del personaggio, nella recitazione come nel fraseggio.
Pienamente convincente l’Escamillo macho e piacione di Alexander Vinogradov, voce di basso importante e di bel colore, talora forse indelicata, ma è caratteristica che non disturba affatto nel toréro de Grenade. Brava Ekaterina Bakanova, Micaela grintosa e risoluta. Il soprano ha voce di bel timbro, il canto è ben gestito, ottima la musicalità.
Positive tutte le parti minori, ben cantate e ancor meglio recitate. Chiara Fracasso è un’ottima Mercedes come inappuntabile è la Frasquita di Sonia Ciani. Buone le prove di Francis Dudziak e Rodolphe Briand spietati Le Dancaire e Le Remendado, di Matteo Ferrara (Zuniga) e di Dario Ciotoli, Morales spaccone e gradasso.
Eccellente la direzione di Omer Meir Wellber sul podio di un’orchestra in gran forma. Il maestro ha offerto una lettura pienamente rispettosa del palcoscenico e delle voci, preziosa senza scadere nel calligrafismo fine a se stesso, di grande spessore sinfonico. Una Carmen vitale ed energica la sua, dall’incedere teatrale incalzante pur senza sacrificare la cura del suono, perfettamente in linea con l’impostazione registica.
Al pari ottima la prova del coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Al termine applausi per tutti con punte di entusiasmo per protagonista e direttore.
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