Terzo titolo in cartellone per il Teatro Verdi di Trieste, Rigoletto rimette le cose a posto dopo un inizio di stagione non dei più felici. Lo spettacolo vedeva impegnata una compagnia di richiamo quantomeno nazionale ed effettivamente le attese – almeno sul versante musicale – non sono state disattese. Rigoletto, giova ricordarlo, è lavoro dalla forza teatrale impressionante, uno di quei casi in cui musica e parole si fondono alla perfezione nel creare una sintesi drammatica di rara potenza. La complessità dei personaggi, protagonista in testa ma senza dimenticare Gilda (troppo spesso ridotta ad una bamboleggiante ragazzetta) racchiusa nella scrittura sintetica e cangiante del libretto di Piave come della musica verdiana necessita di artisti consapevoli musicalmente quanto di interpreti sensibili.
Luca Salsi era atteso al debutto nel title role dopo aver già calcato il palcoscenico del Verdi nella scorsa stagione offrendo un’ottima prova ne “I Due Foscari”. Il baritono oltre a essere in possesso di uno strumento privilegiato per colore e volume ha dimostrato di avere i requisiti tecnici necessari per venire a capo di una parte impervia per scrittura e durata. Il canto è ben sostenuto dal fiato sia nelle mezzevoci, perfettamente timbrate, sia nei passi sfogati. Il cantante avrà poi tempo per maturare la parte e per scoprire le mille sfaccettature di uno dei personaggi più complessi del teatro musicale ma considerata la giovane età le premesse sembrano ottime.
Francesco Meli è a tutt’oggi quanto di meglio si possa ascoltare come Duca di Mantova. La voce è bellissima, sempre perfettamente controllata e piegata ad un canto vario e sfumato. L’interprete sceglie di collocarsi nella tradizione, rispolverando la lezione dei grandi tenori italiani degli anni passati e lo fa con cognizione di causa sposando l’impostazione tradizionale dello spettacolo.
Julia Novikova, nota al grande pubblico per essere già stata Gilda nel discusso Rigoletto in mondovisione con Domingo non convince pienamente. Va dato atto alla cantante di aver cercato di raccontare l’evoluzione del personaggio nell’arco dei tre atti e il suo passare dall’ingenua innocenza dell’amore immaginato all’amara consapevolezza che preludia al tragico epilogo, purtroppo la voce suona opaca, talora acidula e poco squillante, l’intonazione non sempre è irreprensibile. Molto buona la prova del basso Michail Ryssov, torvo ed inquietante Sparafucile come eccellente è stata la Maddalena di Francesca Franci. Tra i tanti comprimari, tutti all’altezza della situazione, ricordiamo l’imponente Monterone di Nicolò Ceriani.
Ottima la prova dell’orchestra guidata da Corrado Rovaris. Il maestro ha optato per una direzione di sostanza, evitando inutili voli pindarici ma riuscendo a cavare dall’orchestra una compattezza ed una precisione che da tempo non si sentivano. L’accompagnamento al canto è sempre elegante, mai prevaricante sulle voci. La scelta dei tempi tendenzialmente serrata oltre a facilitare ai solisti la gestione delle lunghe arcate verdiane ha il pregio di restituire al meglio la tensione drammatica della partitura.
Poco da dire sul resto. L’allestimento con le scene di Lorenzo Ghiglia è tradizionale al massimo con quei fondali dipinti che è sempre più difficile trovare nei teatri ma che tutto sommato ogni tanto non dispiace rivedere. Se ancien régime dev’essere, lo sia fino in fondo; in quest’ottica può essere accettata la polverosa regia da film muto di Michele Mirabella risolta in un alternanza di immobilismo e pose alla Norma Desmond così innaturali e forzate da sfiorare spesso il grottesco. Molto belli i costumi d’epoca a firma di Chiara Barichello.
Paolo Locatelli
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