Dopo mesi d’attesa è finalmente iniziata la stagione di lirica e balletto del teatro Verdi di Trieste con l’Anna Bolena di Donizetti, titolo cardine del repertorio belcantisitico. L’opera, su libretto di Felice Romani ricostruisce senza velleità storiografiche, anzi rimodellando profondamente la vicenda originale, le ultime ore di vita della regina Anna Bolena condannata a morte per volontà del marito Enrico VIII deciso a rimpiazzarla con la damigella Giovanna Seymour.
L’allestimento firmato da Graham Vick, ripreso per l’occasione da Stefano Trespidi, è visivamente efficace nella sua asettica eleganza. La vicenda è trasportata in una prigione di cristallo a raffigurare la fragilità psicologica della protagonista. L’ambiente gelido nelle sue geometrie essenziali come nel sovrapporsi di colori freddi squarciati da lampi di rosso non è solo lo scenario in cui si sviluppano le oscure trame del monarca ma è soprattutto lo specchio su cui si proietta il dramma intimo di Anna. Per il resto la scenografia appare cosparsa di elementi simbolici dal significato più o meno comprensibile ma purtroppo come spesso accade, nel tentativo di dire troppe cose si finisce con il non dire nulla, o almeno niente che abbia un potenziale comunicativo immediatamente comprensibile e quindi teatralmente efficacie. Va detto poi che all’ immobilità dell’opera, intrinseca alla struttura musicale e drammaturgica, avrebbe giovato una regia più dinamica che limitasse i frequenti cali di tensione che invece si sono ripresentati periodicamente lungo tutto l’arco dello spettacolo, complice anche una direzione compassata.
Mariella Devia canta straordinariamente bene, lo ha sempre fatto forte di una consapevolezza tecnica da prima della classe. Benché la freschezza vocale non sia più quella degli anni migliori, ancora sorprende l’irridente facilità con cui il soprano affronta ogni passaggio nonché l’impegno interpretativo che raggiunge nel finale d’opera livelli di rara intensità. Certo la Devia ripensa la figura della regina filtrando le inquietudini e il senso di smarrimento quasi adolescenziali della protagonista attraverso la sensibilità di un’interprete matura e per indole ben lontana dal temperamento drammatico che siamo abituati ad accostare a certi ruoli Pasta. È pur vero che la scrittura musicale di Bolena privilegia rispetto alle altre regine donizettiane una chiave di lettura più lirica e malinconica, la pazzia stessa si sublima in un canto evocativo, una linea diafana piuttosto che in un’isteria virtuosistica. In questo senso la Bolena di Mariella Devia è perfettamente centrata, mestamente consapevole della sconfitta sin dall’inizio sviluppa il personaggio in un rassegnato ed inerme precipizio verso l’ineluttabile baratro. Contraltare a una simile protagonista Laura Polverelli disegna un’eccellente Giovanna Seymour. La voce è sonora ed uniforme, sicura in ogni zona del pentagramma, l’interprete partecipe e garbata.
Probabilmente il pubblico triestino non ricorderà Luiz-Ottavio Faria come un grande Enrico VIII. Il basso ha voce grossa ma poco voluminosa ed un’emissione gutturale che poco si adatta alle necessità del belcanto per cui le difficoltà appaiono evidenti non solo quando la scrittura si fa acuta ma soprattutto nei passaggi prettamente vocalistici. Ne esce un Enrico VIII tagliato con l’accetta, greve ed inespressivo anche in ragione di un canto costantemente tenuto sul forte completamente privo di dinamica.
Diverso il discorso per quanto riguarda Albert Casals, tenore chiamato a sostituire in extremis l’annunciato Celso Albelo pochi giorni prima dell’inaugurazione. Il cantante spagnolo avrebbe mezzi interessanti ma Percy, ruolo Rubini estremamente impegnativo, è attualmente al di sopra delle sue possibilità. Va riconosciuto al tenore un certo impegno interpretativo, purtroppo la voce non risponde a dovere sia nell’ottava bassa che spesso risulta sorda, sia in zona acuta dove l’intonazione non è sempre inappuntabile e si avverte qualche forzatura. Positive le prove di Federico Benetti e Max Renè Cosotti rispettivamente Lord Rochefort e Hervey mentre Elena Traversi non è parsa sempre a proprio agio nella scomoda scrittura di Smeton.
Boris Brott tornava sul podio dell’orchestra triestina dopo un positivo Samson et Dalila nella scorsa stagione anch’egli chiamato in sostituzione dell’annunciato Campanella. La prova del direttore canadese ha ricordato ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia difficile dirigere il repertorio belcantistico. La direzione suona slentata, grigiastra, povera di dinamiche e priva di colori, unicamente preoccupata dell’accompagnamento al canto cui peraltro è stato offerto molto meno di quanto una direzione altrimenti consapevole avrebbe potuto fare.
A fine spettacolo il pubblico ha salutato calorosamente la protagonista Devia e Laura Polverelli, applausi di cortesia al resto del cast con alcune isolate contestazioni al tenore.
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