Foto di Giuliano Ghiraldini |
Non è un caso che le cose migliori arrivino proprio dall’Orchestra di Padova e del Veneto e dal suo guru, o almeno le più interessanti, e non solo per le scelte “editoriali”. Perché? Perché il problema in questo repertorio è centrare quell’equilibrio olimpico tra l’asciuttezza di articolazione e sonorità post barocca, d’altronde si arriva da lì, e un’enfasi sinfonica prettamente “classica”, senza congelare il tutto in una contemplazione canoviana del bello fine a se stesso o stilizzare troppo. Fatta la tara delle condizioni acustiche e logistiche non ideali, Marco Angius e l’OPV centrano il punto, pennellando un Gluck il giusto leggero e flessibile, senza eccessi di secchezza né di vigore, bello tonico ma non corpulento.
Per il resto quello proposto è un Orfeo che si potrebbe quasi definire oratoriale o in forma semiscenica, benché non lo fosse completamente. Non c’è una regia vera e propria ma un progetto d’allestimento, a firma Compagnia Lubbert Das, che punta prevalentemente sulla danza e sui movimenti dei coro. L’orchestra è a fondo palco, sulla scena c’è poco, per non dire nulla, ma che ci sia un lavoro di concertazione registica generale è evidente. Con qualche ingenuità forse – perché ad esempio la morte con falce è una presenza didascalica a cui si potrebbe rinunciare – ma sono inezie, lo spettacolo regge e ha un suo filo. I solisti sono in total black, quasi dei mimi, il coro una serie di replicanti biondini senza volto, o comunque indistinguibili l’uno dall’altro, cosa che genera un effetto leggermente comico quando ad indossare il caschetto biondo è un omone maturo con un bel pizzetto.
Rimane il fatto che Orfeo ed Euridice non è propriamente l’opera ideale per uno spazio aperto, un po’ perché il chiostro del castello, benché non soffra particolari limiti d’acustica, impone alle voci una proiezione spinta che necessariamente scarifica qualcosa in termini di inflessioni e colori, soprattutto nel cesello della parola, un po’ perché una proposta del genere parrebbe un boccone poco invogliante per il pubblico “generalista” delle piazze estive.
Venendo al cast, la protagonista assoluta è ovviamente Laura Polverelli, Orfeo di voce non grandissima, ma che pare essersi notevolmente irrobustita nel registro grave rispetto al passato, sicché oggi la parte le si cuce addosso senza intoppi. Ha bel timbro rotondo, ottima musicalità – quanto è difficile cantare con l’orchestra alle spalle, senza vedere il maestro! – e un’espressività varia e lavorata, almeno nella misura consentita dal contesto.
Michela Antenucci è un’Euridice dalla classica ascendenza lirico leggera: bel timbro fresco, con qualche punta acidula negli estremi acuti, espressività appropriata.
Funziona bene anche l’Amore di Veronica Granatiero, che nasaleggia un po’ ma ha buona proiezione e una presenza scenica credibile.
Fondamentale il contributo del Coro Iris Ensemble, che ha davvero una bella pienezza d’amalgama e, nonostante qualche disomogeneità tra i registri che emerge più per le condizioni di disposizione sul palco che per limiti intrinseci della formazione, firma una prova onorevole.
Buon successo di pubblico.